![]() |
|||||||
Commentario:Giacomo 1:26Se uno pensa d'esser religioso e non tiene a freno la sua lingua ma seduce il cuor suo, la religione di quel tale è vana. I due ultimi versetti del capitolo ribadiscono, sotto forma d'esempi particolari suggeriti a San Giacomo dallo stato morale delle chiese, la verità generale della necessità di mettere in pratica la Parola. Dove manca l'ubbidienza della vita le pratiche religiose sono inutili. Non sono accette a Dio se non quando sono accompagnate dalle opere dell'amore e dalla santificazione personale. La parola θρησκος (religioso) usata dall'autore non s'incontra altrove nel N.T. ( θρησκια, religione, solo Colossesi 2:18; Atti 26:5) e designa lo zelante e diligente osservatore delle pratiche religiose, quali sono la partecipazione al culto di Dio, la preghiera, i riti, le elemosine ecc. Chi si figurasse d'esser religioso nel modo ch'è grato a Dio, perchè non trascura le forme esterne, rituali, della religione, mentre poi non si cura dell'ubbidienza morale e, a mo' d'esempio, non tiene a freno la propria lingua, ma lascia ch'essa serva alla menzogna, alla maldicenza, ai giudizi maligni, alla calunnia, all'insulto, alla leggerezza, alla disonestà (cfr. Giacomo 3:1-18), seduce il cuor suo cercando di persuadersi che bastano le forme, figurandosi che le parole sono cosa di poca importanza mentre esse sono invece l'indice dello stato del cuore. Una religione siffatta ch'è più di apparenza che di realtà, che non scende nel cuore, che non abbraccia la vita intera, che accoppia una condotta peccaminosa a delle pratiche di culto, è vana, è esosa che non raggiunge il suo fine, che non unisce l'anima a Dio, che non onora Dio e non dà all'anima nè pace, nè felicità. Riferimenti incrociati:Giacomo 1:26Prov 14:12; 16:25; Lu 8:18; 1Co 3:18; Ga 2:6,9; 6:3 Dimensione testo: |