Commentario abbreviato:

Colossesi 1

1 Questa epistola fu inviata a causa di alcune difficoltà sorte tra i Colossesi, probabilmente a causa di falsi insegnanti, in seguito alle quali essi si rivolsero all'apostolo. Lo scopo dell'epistola è quello di mostrare che ogni speranza di redenzione dell'uomo è fondata su Cristo, nel quale solo sono presenti tutta la pienezza, le perfezioni e la sufficienza. I Colossesi sono messi in guardia contro gli espedienti dei maestri giudaizzanti e anche contro le nozioni della sapienza carnale, le invenzioni e le tradizioni umane, in quanto non compatibili con la piena fiducia in Cristo. Nei primi due capitoli l'apostolo dice loro ciò che devono credere e negli ultimi due ciò che devono fare: la dottrina della fede e i precetti di vita per la salvezza.

Capitolo 1

L'apostolo Paolo saluta i Colossesi e benedice Dio per la loro fede, il loro amore e la loro speranza Col 1:1-8

Prega per la loro fecondità nella conoscenza spirituale Col 1:9-14

Dà una visione gloriosa di Cristo Col 1:15-23

Ed espone il proprio carattere di apostolo delle genti Col 1:24-29

Versetti 1-8

Tutti i veri cristiani sono fratelli tra loro. La fedeltà attraversa ogni carattere e relazione della vita cristiana. La fede, la speranza e l'amore sono le tre principali grazie della vita cristiana e sono motivo di preghiera e di ringraziamento. Quanto più fissiamo le nostre speranze sulla ricompensa nell'altro mondo, tanto più saremo liberi di fare del bene con il nostro tesoro terreno. Era un tesoro per loro, nessun nemico poteva privarli. Il Vangelo è la parola della verità, e su di esso possiamo tranquillamente scommettere le nostre anime. E tutti coloro che ascoltano la parola del Vangelo, dovrebbero portare il frutto del Vangelo, obbedirvi e formare i loro principi e la loro vita in base ad essa. L'amore mondano nasce da una visione di interesse o dalla somiglianza dei modi; l'amore carnale dall'appetito per il piacere. A questi si unisce sempre qualcosa di corrotto, egoista e meschino. Ma l'amore cristiano nasce dallo Spirito Santo ed è pieno di santità.

9 Versetti 9-14

L'apostolo era costantemente in preghiera, affinché i credenti fossero riempiti con la conoscenza della volontà di Dio, in ogni sapienza. Le buone parole non bastano senza le buone opere. Colui che si impegna a dare forza al suo popolo è un Dio di potenza e di potenza gloriosa. Lo Spirito benedetto ne è l'autore. Nel pregare per la forza spirituale, non siamo stretti o confinati nelle promesse, e non dovremmo esserlo nelle nostre speranze e nei nostri desideri. La grazia di Dio nei cuori dei credenti è la potenza di Dio; e c'è gloria in questa potenza. L'uso speciale di questa forza era per le sofferenze. C'è un lavoro da fare, anche quando si soffre. In mezzo a tutte le loro prove, essi rendevano grazie al Padre del nostro Signore Gesù, la cui grazia speciale li rendeva partecipi dell'eredità prevista per i santi. Per realizzare questo cambiamento, furono resi sudditi di Cristo coloro che erano schiavi di Satana. Tutti coloro che sono destinati al paradiso nell'aldilà, sono preparati per il paradiso ora. Coloro che hanno l'eredità dei figli, hanno l'educazione dei figli e la disposizione dei figli. Per fede in Cristo hanno goduto di questa redenzione, come acquisto del suo sangue espiatorio, con cui è stato concesso il perdono dei peccati e tutte le altre benedizioni spirituali. Sicuramente allora considereremo un favore essere liberati dal regno di Satana e portati in quello di Cristo, sapendo che tutte le prove finiranno presto e che ogni credente sarà trovato tra coloro che usciranno dalla grande tribolazione.

15 Versetti 15-23

Cristo, nella sua natura umana, è la scoperta visibile del Dio invisibile e chi ha visto Lui ha visto il Padre. Adoriamo questi misteri con umile fede e osserviamo la gloria del Signore in Cristo Gesù. Egli è nato o generato prima di tutta la creazione, prima che fosse fatta qualsiasi creatura; questo è il modo in cui la Scrittura rappresenta l'eternità e con cui ci viene rappresentata l'eternità di Dio. Tutte le cose sono state create da Lui, sono state create per Lui; essendo state fatte con la sua potenza, sono state fatte secondo il suo piacere e per la sua lode e gloria. Non solo le ha create tutte all'inizio, ma è con la parola della sua potenza che le mantiene. Cristo come mediatore è il capo del corpo, la Chiesa; tutta la grazia e la forza vengono da lui e la Chiesa è il suo corpo. Tutta la pienezza risiede in lui; una pienezza di meriti e di giustizia, di forza e di grazia per noi. Dio ha mostrato la sua giustizia richiedendo una piena soddisfazione. Questo modo di redimere l'umanità con la morte di Cristo era il più adatto. Ecco presentato alla nostra vista il metodo per essere riconciliati. E che, nonostante l'odio per il peccato da parte di Dio, a Dio è piaciuto riconciliarsi con l'uomo decaduto. Se siamo convinti che eravamo nemici nella nostra mente a causa delle opere malvagie e che ora siamo riconciliati con Dio grazie al sacrificio e alla morte di Cristo nella nostra natura, non cercheremo di spiegare, né penseremo di comprendere appieno questi misteri; ma vedremo la gloria di questo piano di redenzione e gioiremo della speranza che ci è stata posta davanti. Se è così, che l'amore di Dio è così grande per noi, cosa dobbiamo fare ora per Dio? Siate frequenti nella preghiera, abbondate nei santi doveri e non vivete più per voi stessi, ma per Cristo. Cristo è morto per noi. Ma perché? Perché vivessimo ancora nel peccato? No, ma perché morissimo al peccato e vivessimo d'ora in poi non più per noi stessi, ma per Lui.

24 Versetti 24-29

Sia le sofferenze del Capo che quelle delle membra sono chiamate sofferenze di Cristo e costituiscono, per così dire, un unico corpo di sofferenze. Ma Egli ha sofferto per la redenzione della Chiesa; noi soffriamo per altri motivi, perché non assaggiamo che in minima parte quel calice di afflizioni di cui Cristo ha prima bevuto profondamente. Si può dire che un cristiano riempia ciò che resta delle sofferenze di Cristo, quando prende la sua croce e, sul modello di Cristo, sopporta pazientemente le afflizioni che Dio gli assegna. Siamo grati a Dio per averci fatto conoscere misteri nascosti da secoli e generazioni e per aver mostrato le ricchezze della sua gloria in mezzo a noi. Poiché Cristo viene predicato in mezzo a noi, chiediamo seriamente se egli abita e regna in noi, perché solo questo può giustificare la nostra sicura speranza della sua gloria. Dobbiamo essere fedeli fino alla morte, attraverso tutte le prove, per ricevere la corona della vita e ottenere il fine della nostra fede, la salvezza delle nostre anime.

Commentario del Nuovo Testamento:

Colossesi 1

1 

PRIMA PARTE

I PRELIMINARI

Colossesi 1:1-2

L'indirizzo ed il saluto. Colossesi 1:1-2

Paolo, apostolo di Cristo Gesù per la volontà di Dio, ed al fratello Timoteo, ai santi e fedeli fratelli in Cristo che sono in Colosse. Grazie e pace a voi da Dio nostro Padre!

Alla chiesa ch'egli non ha fondata Colossesi 1:6-7,23; 2:1-2,5 ed ai falsi dottori che in codesta chiesa irrompono per portarvi lo scompiglio, Paolo si presenta col titolo che gli spetta, apostolo di Cristo Gesù; di mandato ambasciatore di Cristo Gesù per volontà di Dio.

La volontà di Dio è la ragione ultima del suo apostolato. La onnipotente volontà di Dio che ha sormontato ogni ostacolo esterno e vinta ogni riluttanza interna del vecchio fariseo, è la causa prima dell'apostolato di Paolo Cfr. 1Corinzi 15:10.

Ed il fratello Timoteo

Cfr. 2Corinzi 1:1; Filippesi 1:1; 1Tessalonicesi 1:1; 2Tessalonicesi 1:1; Filemone 1. Per un sentimento nobile e delicato, l'apostolo si compiace d'associare al proprio nome quello degli amici e degli aiuti che come Timoteo, Sostene e Silvano 1Corinzi 1:1; 1Tessalonicesi 1:1 redenti dal medesimo Salvatore, combattono con lui per la medesima causa.

2 Ai santi e fedeli fratelli in Cristo Santo

significa, in generale, «messo a parte», «consacrato» e nel linguaggio cristiano, vale: «messo a parte, consacrato al servigio di Dio». È parola che ricorda l'opera divina che ci ha tratti dalla schiavitù del male e ci ha chiamati al libero filiale servigio dell'Iddio salvatore.

Fedele

è la parola che ricorda l'atto per cui noi abbiamo risposto alla chiamata divina e camminiamo condegnamente alla nostra celeste vocazione.

Fratelli

è la parola che ricorda le relazioni che debbon passare fra quelli che essendo stati chiamati dallo stesso Salvatore, hanno all'unisono risposto a Colui che li ha chiamati.

In Cristo

non è una formula vana, ma è una formula eminentemente sintetica: ell'abbraccia tutte quante le tre parole: «santi, fedeli, fratelli; poichè Cristo è la sorgente della santità del cristiano, è l'oggetto della fedeltà di lui, ed è il fondamento incrollabile su cui, in mezzo a tanta varietà di forme e di attribuzioni, s'eleva il nuovo e spiritual tempio di Dio.

Grazie e pace a voi da Dio nostro Padre:

è il saluto. Vari codici aggiungono «... e dal Signor Gesù Cristo»; ma è un inciso che secondo le migliori autorità dev'esser tralasciato. Evidentemente i colossesi, pel fatto ch'erano dei santi e fedeli fratelli in Cristo», aveano già gustato le primizie della «grazia salutare» Tito 2:11 e di quella «pace di Dio che sorpassa ogni intelletto» Filippesi 4:7; ma cotesta grazia e cotesta pace non son cose che l'uomo possa ricevere ad un tratto in tutta la loro pienezza; sono due miniere inesauribili nelle quali il credente più s'inoltra e più desidera d'inoltrarsi per essere spiritualmente arricchito. E il padrone di codeste miniere non è un padrone speculatore ed avaro, dice l'apostolo; è Dio; e cotesto Iddio ci è Padre. «Grazia è pace a voi da Dio nostro Padre!»

Riflessioni

1. Non è ella sommamente edificante questa nobile figura dell'apostolo che, senza spavalderia ma compreso dal sentimento di quella dignità che Cristo gli ha conferita, si presenta come fa in quest'indirizzo alla chiesa che ancora non lo conosce personalmente Colossesi 1:11 ed a quei falsi dottori che forse si ridono della sua dottrina? «La mia grazia ti basta», gli ha detto il Signor della gloria 2Corinzi 12:9: ed a lui basta la coscienza di sapersi agli ordini del Signor della gloria. Confessiamolo pure: abbiamo molto da imparare dall'apostolo. Quante viltà spirituali nella nostra vita quotidiana! Quante volte, dinanzi alla gente, o ci vergognamo, o parliamo a denti stretti di quel che siamo in Cristo! Eppure, se la nostra gloria non è nell'essere agli ordini di Cristo e nel confessarci di lui per la vita e per la morte, dov'è ella dunque la nostra gloria?

2. In codeste tre parole a santi, fedeli, fratelli», è la definizione più sublime che si possa dare della Chiesa. Alteriamo un po' la forma e la disposizione delle parole, ed ecco la definizione: La Chiesa di Cristo è e una fratellanza di santi e di fedeli». Santi, dico, ed alludo all'opera di Dio in ciascun membro della Chiesa. Niuno si consacra da sè al servigio di Dio: è Dio che lo chiama e lo consacra. Fedeli, dico, ed alludo all'opera dell'uomo; al grido ch'è uscito dal cuore della creatura, quando ha risposto e continua a rispondere con un si onesto e coscienzioso alle richieste dell'amor divino. Fratellanza, dico, ed alludo a quel vincolo «più forte della morte», a quell'amore che è il legame perfetto di tutti i figliuoli dello stesso riscatto.

3. Grazia e pace; ecco due parole che ci trasportano in riva all'oceano immenso dell'ineffabile amore di Dio. Pensate a tutto quello che di più nobile, di più grande, di più santo ha la vita umana; tutto ciò rientra in quel dominio che si chiama il dominio della «grazia». Perdono, luce della mente, intelletto d'amore, vittoria sul male, santificazione. tutto è frutto di quella grazia che Dio rivela progressivamente alla sua creatura. Taluno forse dirà. Sta bene che ci sia una progressiva manifestazione della grazia di Dio; ma la «pace» non è ella un qualcosa che s'ha in tutta la sua pienezza una volta per sempre! No; anche la «pace» ha i suoi diversi gradi d'intensità; e molti gradi si posson segnare fra; la pace del credente che pur essendo sincero è un credente superficiale, e la pace di colui che, come dice l'apostolo Colossesi 2:7, «radicato in Cristo» ed incrollabilmente «fondato su lui», sta fermo come querce annosa e come torre che non crolla, in mezzo all'infuriar degli elementi contrari.

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SECONDA PARTE

PARTE DOTTRINALE

Colossesi 1:3-2:3

Questa seconda parte consta di dieci sezioni, che intitoleremo così:

1. LA PREGHIERA DELL'APOSTOLO ED IL SUO MOTIVO. Colossesi 1:3-5a.

2. L'EVANGELO ED I SUOI MINISTRI. Colossesi 1:5b-8.

3. L'OGGETTO E LO SCOPO DELLA PERSEVERANTE PREGHIERA DELL'APOSTOLO. Colossesi 1:9-11.

4. LA REDENZIONE. Colossesi 1:12-14.

5. IL PRIMATO DI CRISTO. Colossesi 1:15-18.

6. IL COMPIACIMENTO DI DIO CHE SI ESPLICA NEI FATTI DELLA DIVINITÀ DI CRISTO E DELLA RICONCILIAZIONE. Colossesi 1:19-20.

7. LA RICONCILIAZIONE DAL PUNTO DI VISTA PRATICO DELL'OGGETTO, DELL'AUTORE, DEL MEZZO, DELLO SCOPO E DELLA CONDIZIONE CHE IMPLICA. Colossesi 1:21-23.

8. UN'ESPERIENZA PERSONALE DELL'APOSTOLO ED IL CONCETTO CH'EGLI S'È FATTO DEL MINISTERIO EVANGELICO E DEL MESSAGGIO CHE DIO GLI HA CONFIDATO. Colossesi 1:24-27.

9. IL MINISTERIO EVANGELICO. Colossesi 1:28.

10. IL MINISTERIO EVANGELICO NELLE SUE LOTTE E NELLE SUE ASPIRAZIONI. Colossesi 1:29-2:3.

1. La preghiera dell'apostolo ed il suo motivo: Colossesi 1:3-5a.

Noi rendiamo grazie a Dio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo, nel pregare che del continuo facciamo per voi, per le notizie che abbiam ricevuto della vostra fede in Cristo Gesù e dell'amore che avete verso tutti i santi a motivo della speranza che vi è riposta nei cieli.

L'apostolo dice: «Noi rendiamo grazie a Dio...» Chi son questi noi? Evidentemente sono Paolo e Timoteo Colossesi 1:1; ma non è forse scostarsi troppo dal vero se a Paolo e Timoteo aggiungiamo anche tutti quelli che godevano della loro predicazione; i fratelli, cioè, che in ispirito facean corona all'apostolo quando egli scriveva ai colossesi.

Nel pregare...

La parola che l'apostolo qui adopera, è la più generica fra le varie di cui gli scrittori del Nuovo T. si servono a significare la preghiera. Essa contiene l'idea di un desiderio di colui che supplica esprime al suo Dio ( προσευχομενοι). Ond'è che potremmo ricavarne questa definizione: La preghiera è l'espressione dei nostri desideri fatta a Dio. O per non perder nulla dell'idea delicata che è nel termine originale: La preghiera è un desiderio od una supplica che va dalla creatura a Dio: προσευχη è un composto di: προσ «verso»; di ευχη «supplica», «desiderio»; se esprimiamo il complemento sottinteso del προς (τον θεον) ευχη. Questa preghiera di cui qui si parla, ha tre elementi importanti. È preghiera perseverante (del continuo); ha un oggetto ben determinato (per voi); ha una nota dominante la riconoscenza (noi rendiamo grazie...). Più innanzi l'apostolo esorterà i colossesi a «a perseverare nella preghiera ed a vegliare in essa con rendimento di grazie» Colossesi 4:1; nel nostro passo intanto egli dimostra che ha imparato egli stesso a mettere in pratica l'esortazione che farà poi più tardi ai suoi fratelli in fede. «Noi rendiamo grazie a Dio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo». È una formula che torna spesso negli scritti apostolici; ed in ispecial modo, in quelli di Paolo; e la ragione di cotesta formula va cercata nelle condizioni in cui si trova lo spirito umano nelle sue relazioni con Dio. Quando diciamo «Dio», noi accenniamo all'infinito, all'eterno, all'immutabile; e circoscrivere con una formula ciò che per propria essenza e natura è illimitato, è un bisogno dello spirito umano. L'antica Economia trova la formula: «L'Iddio d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe»; l'Iddio, cioè, che si avvicina all'uomo per via di promesse che si evolveranno nel corso delle generazioni sul campo della stria; e codeste promesse diventano la querce sulla quale si arrampica il debole stelo della fede dell'uomo. La nuova Economia ha anch'essa la sua formula: «L'Iddio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo»; formula più pratica e più concreta dell'altra, perchè ci presenta Iddio non come l'Iddio d'un popolo che fa delle promesse che si compiranno soltanto più tardi nell'oceano del tempo, ma come l'Iddio che è vicino all'individuo ch'Egli ama d'un amore che ha la sua garanzia nel dono di quel suo figliuolo e Signor nostro Gesù Cristo, in cui tutte le promesse sono già «sì ed amen» 2Corinzi 1:20; vale a dire, dei fatti compiuti, e quindi oggetto d'una certezza assoluta.

4 Il motivo della preghiera dell'apostolo è nelle notizie che a lui ed a Timoteo son giunte «della loro fede in Cristo Gesù e dell'amore ch'essi hanno verso tutti i santi a motivo della speranza che è loro riposta nei cieli». L'apostolo ha udito che i cristiani di Colosse sono gente di fede, d'amore e di speranza; non solo, ma d'una fede, d'un amore e d'una speranza che sono i tre elementi genuini del cristianesimo di Cristo. Difatti. La loro fede è la fede vera, che ha per oggetto la persona di Cristo; è fede in Cristo Gesù; in Gesù di Nazaret fatto da Dio Signore e Cristo Atti 2:36. Il loro amore è amore vero tutti i santi; verso i «messi a parte per il servigio di Dio»; non solo, ma verso tutti i santi; il che equivale a dire, un amore al di sopra d'ogni spirito di parte, d'ogni pregiudizio, d'ogni simpatia o antipatia personale. È ben vero che questo amore dei colossesi è qui unicamente esercitato «verso i santi»; ma non si dimentichi che l'amore che cerca il vero bene d'ogni creatura, non è che un frutto dell'amore che i cristiani hanno fra loro. Per questo, in un altro documento della letteratura cristiana primitiva, troviamo stabilita una naturale gradazione fra i tre termini: Pietà ( ευσεβεια), amor fraterno ( φιλαδελφια), amore universale ( αγαπη) 2Pietro 1:7. E così è: La pietà è la base dell'amor fraterno; l'amor fraterno è la causa dell'amore universale.

5 La loro speranza è quella che alimenta del continuo la loro fede energica ed il loro potente amore. Ed è speranza non vaga ed incerta, ma speranza in un qualcosa ch'essi sanno essere riposto, messo al sicuro, al coperto d'ogni pericolo, lassù nei cieli, per loro. Cfr. 1Pietro 1:3-5. Tutto questo Paolo non l'ha visto coi propri occhi; lo sa per notizie che ne ha ricevuto, come vedremo più innanzi, da Epafra Colossesi 1:7-8.

Riflessioni

1. Dal brano studiato sgorgano due gruppi di lezioni:

1) Le caratteristiche di una vera preghiera.

2) Le caratteristiche di una vera Chiesa.

1) Le caratteristiche di una vera preghiera sono:

a) La perseveranza. Quando a proposito della preghiera parliamo di perseveranza, questa perseveranza implica l'idea di fede. Iddio non risponde sempre subito al desiderio espressogli dalla sua creatura. Egli tarda talvolta; ed è durante il periodo in cui Dio sembra tacere, che si vede se la preghiera ha realmente le sue radici in una fede robusta nella bontà di Dio, o se è soltanto lo slancio d'una sentimentalità momentanea. La risposta alla preghiera verrà. Il modo con cui verrà, non lo sappiamo; se verrà conforme al nostro desiderio o a codesto desiderio del tutto contraria, neppure sappiamo. Quel che sappiamo si è, che verrà e che sarà pel nostro vero bene. Chiedere e ricevere istantaneamente sarebbe un qualcosa di magico, di meccanico, la non sarebbe cosa degna di chi è chiamato a «camminar per fede» 2Corinzi 5:7. E se Gesù con le parabole dell'amico importuno Luca 11:5-10, della vedova e del giudice iniquo Luca 18:1-9 e col fatto della donna sirofenice Matteo 15:21-28 c'insegnava che «ci convien pregare del continuo senza stancarci» Luca 18:1, era perchè il divino Maestro sapeva che nulla è così atto a ritemprare una fede sincera nell'amore del Padre, come un supplicar perseverante.

b) La intercessione. Parrà strano, ma pure non è esagerazione il dire, che ci sono delle migliaia di preghiere che salgono giornalmente a Dio, e che non sono altro che delle preghiere egoiste. Domandiamo «per noi»; strozziamo i confini del mondo alle nostre pareti domestiche; vorremmo vedere i tesori della grazia e dell'amore di Dio riversati fra codeste pareti, senza pensare che anche al di là ci sono degli infelici e dei sofferenti. Non abbiamo forse un qualche parente o un qualche amico per cui Cristo è ancora un impenetrabile mistero?... Preghiamo per lui! Ogni creatura con la quale veniamo in contatto nelle nostre relazioni quotidiane non ha ella un'anima immortale?... Preghiamo per lei! E in quanto apparteniamo ad una chiesa speciale, non dimentichiamo noi forse troppo spesso che dovunque ci troviamo, non siamo degli atomi disgregati e perduti nell'immensità dello spazio, ma membra d'una grande fratellanza sparsa per l'Italia e per il mondo?... Preghiamo per codesta, fratellanza!

c) La riconoscenza. Ogni preghiera che non contenga un rendimento di grazie, è una preghiera ingrata. Se avessimo ottenuto un favore da un amico e ci fossimo dimenticati di ringraziarlo, con che faccia oseremmo noi riaccostarci a lui per chiedergli un nuovo favore? Cfr. Colossesi 3:15; 1Tessalonicesi 5:18; Efesini 5:20; Filippesi 4:6. Una preghiera ingrata non ha speranza di esaudimento; e certo nulla più contrista quell'Iddio che è un donatore liberale Giacomo 1:5, d'un figlio che lo implora con animo dimentico dei benefici ricevuti.

2) Le caratteristiche d'una vera chiesa sono:

a) La fede in Cristo; vale a dire, non soltanto una fede intellettuale; non soltanto una, fede in qualcosa d'umano; neppure soltanto una fede nella lettera delle Scritture, ma una fede che, persuasa nell'intelletto e pur tesoreggiando tutto quello che d'umano può esserle d'aiuto, risorge, per il tramite della lettera scritturale, alla altezza della comunione vivente e personale con Cristo.

b) L'amore. Si dice che la caratteristica principale d'una vera chiesa è il «dare»: il che varrebbe a dire che una chiesa più dà in danaro, e più è spirituale; ma l'esperienza prova che si può dar molti quattrini, eppur trovarsi in meschine condizioni spirituali. Si dice che una chiesa più prega, e più è spirituale; ma anche qui l'esperienza insegna che una chiesa può pregar molto per gli altri e spiritualmente curar poco se stessa. Noi, avendo dinanzi agli occhi il quadro vivo che della chiesa colossese ci ha dipinto l'apostolo, diciamo che la caratteristica più sicura d'una vera chiesa cristiana è l'amore; l'«amore spirituale» Colossesi 1:8; l'amore, cioè, ch'è frutto di quell'amore istesso di cui Dio ci ha amati, e che è stato «sparso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito» Romani 5:5; l'amore per «tutti i santi»; l'amore che vince ogni egoistica simpatia; che supera ogni ripugnanza che nasca dall'invidia o dall'orgoglio, e che, non criticando i difetti, posa lo sguardo con soave diletto sulle belle qualità del fratello. Questo è il sentimento che veramente ci nobilita; che c'ispira la preghiera che è accettevole a Dio, e che trasforma le chiese in tante scuole d'amore per il bene di quelli che ne sono al di fuori, ma per i quali pure il Cristo è morto.

c) La speranza. Un individuo ed una chiesa posson prendere diverse attitudini di fronte alla speranza che è «riposta nei cieli per loro». L'attitudine dello schiavo, per esempio. Ecco un tale che sa che v'è una «speranza riposta nei cieli per lui». Egli sa il prezzo che codesta speranza ha costato; e sa anche l'amore di cui ell'è l'espressione. Ma egli si figura che quell'Iddio che gli tiene in serbo la eredità, è «uomo aspro» Luca 19:21 che esige un lavoro duro e servile; e per tutto il tempo della sua grama esistenza, codesto povero mortale lavora e trema, come chi abbia sul capo minacciosa una spada di Damocle. Evidentemente codesto tale non ha capito il suo Dio; non ha ricevuto il nuovo «spirito d'adozione» Romani 8:15, ma ha sempre il vecchio «spirito di schiavitù che lo fa tremare» 2Timoteo 1:7; e quando nel regno di Dio vedrà passarsi innanzi il fratello già prodigo ma riabilitato dal Padre Luca 15:11-24, con l'accento fra lo stizzito ed il querimonioso d'un cuor di fariseo esclamerà: «Ecco, già da tanti anni io ti servo, e non ho mai trasgredito alcun tuo comandamento, e tu non m'hai dato mai di che rallegrarmi con i miei amici!» Luca 15:29. V'è anche l'attitudine del mercenario. Il monaco onesto che si ritira dalla società per vivere nella solitudine d'un convento, sa che v'è un'eredità celeste riserbata per lui; sa che codesta eredità è l'espressione d'un amore che sorpassa ogni conoscenza Efesini 3:19; ma una cosa non sa; che è Cristo che ci assicura l'eredità Giovanni 1:12; 3:16; 6:47; e che chiunque confida in lui diventa erede di Dio: e quindi, «coerede di Cristo» Romani 8:17. Convinto così che l'eredità esiste ma che, siccome nessuno l'ha per lui acquistata e nessuno gliel'assicura, è necessario ch'egli se l'acquisti e se l'assicuri da sè, l'onesto monaco tormenterà il suo spirito ed il suo corpo e inventerà dei sempre nuovi tormenti, sicuro che più macerato giungerà alle porte della città di Dio, e più Dio lo reputerà degno della eredità sospirata. Qual delusione proverà l'onesto monaco quando, alle porte della città di Dio, s'accorgerà invece che tutto il suo angoscioso tormentarsi non ha aggiunto nulla a quell'opera che Cristo aveva già compiuta per lui! Efesini 2:8-9. E v'è l'attitudine del figlio, che ha ricevuto «lo spirito d'adozione» e può chiamare il suo Dio col dolce nome di Padre Romani 8:15; Galati 4:6. Egli sa che v'è per lui una celeste eredità; che Dio gliel'ha offerta in dono Romani 6:23; che Cristo gliel'ha assicurata; e tutto ciò diventa per l'anima sua una sorgente inesauribile d'allegrezza e d'amore. Non dite al povero schiavo d'amare «spiritualmente tutti i santi»; codesto è un linguaggio misterioso per lui! Non lo dite neppure al povero monaco; e dove troverebbe egli la forza d'amare? Ai figli, ditelo; ed essi, «a motivo della speranza ch'è loro riposta nei cieli», cresceranno nella fede in Cristo e nell'amore per tutti.

2. L'Evangelo ed i suoi ministri: Colossesi 1:5b-8.

Cotesta speranza voi l'avete già conosciuta mediante la predicazione della verità del vangelo: di quel vangelo che è in mezzo a voi, come anche in tutto il mondo, ove frutta e fa progressi nella maniera appunto che fa pur tra voi, dal giorno che l'avete udito e che avete conosciuto appieno la grazia di Dio in verità, conformemente a ciò che avete imparato da Epafra, il nostro caro compagno di servigio, ch'è fedele ministro di Cristo a pro vostro, e che ci ha, oltre a tutto il resto, fatta palese la spiritualità del vostro amore.

I colossesi sono giunti al possesso di codesta speranza mediante la predicazione della verità del Vangelo; vale a dire, mediante la predicazione di quella verità, che è contenuta nel Vangelo. Il Vangelo, dunque, ossia «la buona novella che Dio ha fatto proclamare al mondo», contiene la verità; la verità relativamente a Dio, relativamente all'uomo e relativamente alle relazioni fra Dio e l'uomo e fra l'uomo e Dio; questa verità è il solo legittimo oggetto della predicazione evangelica, e vale ad infondere nei mortali una speranza di cui prima non avevano idea.

6 Come anche in tutto il mondo.

Che vuol egli dire l'apostolo con questa frase? Vuol egli, come crede il Grozio, alludere soltanto alle parti più note del mondo? O usa egli qui, come dice il Meyer, semplicemente un parlare iperbolico? No, l'apostolo non iperboleggia; egli è esatto in tutte le sue espressioni; e quando dice che l'Evangelo e «in tutto il mondo», egli abbraccia realmente con lo sguardo tutto quel mondo che il Signore ha chiamato «il campo» Matteo 23:38. In quel campo egli nota la salutare azione dell'Evangelo; sulla gran carta di codesto campo, molte cittadelle giudaiche e pagane l'Evangelo ha già conquistate; Colosse non e che una di queste cittadelle; e le cittadelle già conquistate sono per l'apostolo una promessa che anche le non conquistate, lo saranno nel giorno che Dio soltanto conosce.

Frutta e fa progressi.

Il frutta accentua l'azione trasformatrice del Vangelo. Il Vangelo è l'innesto divino che agisce nella viziata pianta dell'umanità. Il fa progressi accentua l'azione espansiva, diffusiva, del Vangelo. Il commentario del «frutto»» è nella parabola del «lievito»: Matteo 13:33; quello del «fa progressi» è nella parabola del granel di senape»: Matteo 13:31-32.

Nella maniera appunto che fa pur tra voi.

Quali frutti l'Evangelo andasse producendo fra i colossesi, l'abbiam visto: fede in Cristo; potenza d'amore, certezza di speranza.

E che avete conosciuto appieno la grazia di Dio in verità.

Dopo aver udito l'Evangelo, essi hanno conosciuto... non già che l'uomo può per via di esercizi ascetici Colossesi 2:23 diventare il redentor di se stesso, ma hanno conosciuto la grazia di Dio; e non soltanto l'hanno «conosciuta»; la parola originale ( επι-γινωσκω) è più energica; e non è capricciosamente che la traduciamo per «hanno conosciuto appieno» la grazia di Dio.

In verità.

Un'aura dolce, pura e soave aleggiava per l'ambiente frigio, mentre nella vita, morale dei colossesi s'andava compiendo l'opera di radicale trarformazione. Era un'aura di celeste sincerità. Quell'in verità va riferito tanto al fatto della predicazione del Vangelo, quanto al modo con cui l'Evangelo è stato accettato dai colossesi. Da un lato non subdole astruserie filosofiche, non speciosità d'argomenti, non cavilli giudaici: dall'altro, non ombra d'ipocrisia, ma sincerità completa ed umiltà di cuori onesti e buoni Luca 8:15.

7 Epafra

è un'abbreviazione di Epafrodito, che non va confuso con l'Epafrodito della lettera ai filippesi Filippesi 2:25; 4:18, ma che è il medesimo che Paolo menziona nel suo bigliettino a Filemone 23. L'Epafrodito de' filippesi era macedone; quello dei colossesi, se non è addirittura di Colosse, è per lo meno frigio; «uno dei loro», come dice l'apostolo Colossesi 4:11.

Il nostro caro compagno di servigio.

Non è un atto d'umiltà questo che fa l'apostolo, associando il nome d'un forse oscuro operaio alla sua grande personalità; è piuttosto un atto ispirato dal sentimento vivo e profondo di quella solidarietà che deve regnare tra operai i quali lavorano sotto una medesima, bandiera, agli ordini d'un medesimo Signore, in vista d'un medesimo scopo. Caro, dice l'apostolo. Che mai può aver creato questo vincolo di così dolce affetto? Due cose l'hanno creato. Prima di tutto, sappiamo che Epafra è stato in prigione con Paolo Filemone 23. E dunque nella solitudine del carcere, là dove la fede d'entrambi è passata per i medesimi conflitti e per i medesimi trionfi, che l'affetto dei due è diventato un qualcosa che non passerà com'ombra fugace. Le amicizie contratte nei momenti della prova, sono sempre le più vere e le più durature. E poi, è da Epafra che l'apostolo ha saputo quanto spirituale sia l'amore dei colossesi; come dunque non gli sarebbe caro il messaggero di così buone notizie? L'opera che Paolo ed Epafra son chiamati a fare, è un servigio. Essi sono dei «servi» di Cristo; e niuno è quindi più libero di loro, perchè il segreto della vera libertà sta nell'assoluta subordinazione a Cristo. Epafra è un fedel ministro di Cristo a pro dei colossesi; non è un mercenario; è un ministro «fedele»; e notisi bene: egli è un fedel ministro... non dei colossesi, ma di Cristo a pro dei colossesi. L'operaio cristiano non è il servo d'una chiesa o d'un'opera che l'abbia chiamato od a cui sia stato preposto, tua è il servo di Cristo a pro della chiesa o dell'opera. E da Epafra i Colossesi hanno imparato l'Evangelo Colossesi 1:7. Non è da Paolo che i colossesi hanno udito l'Evangelo, ma è da Epafra Colossesi 1:6 che l'apostolo ci presenta qui addirittura come «il maestro» dei credenti di Colosse.

8 La spiritualità del vostro amore:

letteralmente: «il vostro amore in ispirito». Questo «in ispirito» accentua la base dell'amor loro, che non era la simpatia personale o la personale conoscenza o qualcosa di simile, ma era lo Spirito Santo. Il loro amore, dice Ecumenio non era amor sarchico, ma era amore pneumatico.

Quindi la nostra traduzione: «la spiritualità del vostro amore», esprime bene il concetto dell'autore.

Riflessioni

1. L'Evangelo soltanto contiene quel vero di cui abbiamo bisogno per il cuore e per la coscienza Colossesi 1:5. La convinzione che Paolo avea di questo fatto era tale che ai galati i quali, subornati, oltrepassavano i limiti di quest'Evangelo: «O galati insensati, scriveva; chi v'ha ammaliati? voi, ai quali Gesù Cristo crocifisso è stato ritratto dinanzi agli occhi?» Colossesi 3:1. «Se noi stessi od un angelo del cielo v'annunziassimo un altro Evangelo differente da quello che v'abbiamo annunziato... anatema! Galati 1:8.

2. Ecco la evoluzione della vita spirituale dei colossesi: Udire, conoscere appieno, fruttare Colossesi 1:6. A quale di queste parole s'è egli arrestato il progresso della «nostra» evoluzione? Abbiano «udito», senza dubbio; ma dopo aver udito, abbiam noi «conosciuto?» E se abbiam conosciuto, che cosa abbiam noi conosciuto: la «legge» o la «grazia?» E se la «grazia», l'abbiam noi come i colossesi «conosciuta appieno?» E «fruttiamo» noi? Ecco delle domande solenni, che è necessario poniamo sull'altare della nostra coscienza.

3. Impariamo dall'apostolo a spinger qualche volta lo sguardo nella immensità del «campo» di Dio Colossesi 1:6. Ci son due maniere di spingervi lo sguado. La maniera di coloro che, vacillanti, sfiduciati per la corruzione che li circonda, non sanno o non voglion discernere le tracce dell'Evangelo in mezzo a quei solchi che purtroppo la corruzione ha scavati nel mondo, spessi e profondi. Per loro, tutto va di male in peggio; la marea del male s'avanza; l'Evangelo è sopraffatto; pochi si salveranno dal naufragio; e la causa di Dio sarebbe perduta, s'Egli stesso, nella persona del suo Cristo, non intervenisse in un modo subitaneo a sovvertire il mondo con ispaventosi cataclismi, ed a fondare con la forza un regno, che gli uomini non hanno voluto accettar per amore. Questo modo di prevedere la storia dell'Evangelo, è il molo di chi o non ha fede in quell'Evangelo che è «potenza di Dio» Romani 1:16, o non ha capito che il vero avvenire del Vangelo è Cristo che l'ha profetato nel suo divino insegnamento parabolico Matteo 13:31-33. Ma c'è un'altra maniera di considerare le medesime cose, ed è la maniera dell'apostolo. Saliamo con lui all'altezza delle incrollabili promesse del Maestro; ed alla luce di quelle promesse, leggiamo in isperanza le pagine gloriose che descrivono la marcia non funebre ma trionfale del Vangelo. L'Evangelo è nel mondo. Ecco il primo fatto da accentuare. E se l'apostolo lo poteva asserire ai tempi suoi, certo è che noi, a distanza di venti secoli da lui, possiamo asserirlo in modo anche più energico del suo. E non soltanto è nel mondo, ma frutta. L'apostolo, che viveva in tempi nei quali il politeismo copriva la faccia dell'Europa; in tempi nei quali il diritto della forza regnava assoluto; in tempi nei quali le leggi punivano o soltanto per soddisfare il rigore d'un'implacabile giustizia, o per levar di mezzo un colpevole ch'era d'impaccio, l'apostolo, dico, fissando lo sguardo in poche, deboli e microscopiche chiese, osava esclamare: l'Evangelo frutta! E noi, che viviamo in tempi nei quali il monoteismo ha conquistato l'Europa; in tempi nei quali il diritto della forza ha ceduto il posto alla forza del diritto; in tempi nei quali la società comincia a capire che non ha soltanto dei diritti ma che ha anche dei doveri verso lo sciagurato che commette un delitto; in tempi nei quali, insomma, lo Spirito del Vangelo ha fatto già tanto e tanto progresso, direm noi: Nossignori, l'Evangelo non frutta? L'apostolo aggiunge: «frutta e fa progressi». È l'«eppur si muove» di Paolo, cha segue con lo sguardo ansioso il lento ma sicuro propagarsi del Vangelo. E noi che abbiam raccolto gli ultimi aneliti d'un secolo che è stato il secolo glorioso delle missioni, il secolo propagatore della Parola di Dio, il secolo inauguratore dello studio veramente scientifico della Bibbia, che direm noi?... Bando alle incertezze, e salutiamo in ferie il giorno in cui, compiuta l'evoluzione del regno di Cristo, la giustizia apparirà come una celeste visione, per abitare nei nuovi cieli e sulla nuova terra usciti dalla dissoluzione dei vecchi elementi 2Pietro 3:10-13 e purificati dalle nuove aure della «gloriosa libertà dei figliuoli di Dio!» Romani 8:21.

4. Due legami debbono, secondo l'apostolo, tener costantemente uniti i ministri del Vangelo Colossesi 1:7: un legame d'affetto sincero ed un legarne di perfetta solidarietà. Debbono amarsi gli uni gli altri di quell'amore spirituale, di cui s'amavano Paolo ed Epafra; debbono aborrire ogni idea di dominio, ricordando sempre che ogni operaio ha il posto che occupa, non esclusivamente per i suoi meriti personali, ma, prima di tutto, per la grazia di Dio e per l'ordine del Maestro. Guai poi se il legame di solidarietà che deve tenerli compatti, si affievolisce o si spezza! La loro sconfitta divien tanto sicura, quanto sicura sarebbe stata la loro vittoria, se non avessero dimenticata la parola d'ordine: «Tutti per uno, come uno s'è dato per tutti!»

5. Il ministro, dice l'apostolo, non è servo della Chiesa, ma è servo di Cristo a pro della Chiesa Colossesi 1:7. Con questa ispirata parola Paolo emancipa il ministro da ogni schiavitù in cui potrebbe esser ridotto dalla Chiesa, e lo pone in un'assoluta dipendenza da Cristo. Il ministro che diventa schiavo della sua Chiesa o dell'opera che conduce, è un ministro che non può esporre con franchezza l'evangelo della grazia. La sua parola dovrà necessariamente esser sempre compassata ed accuratamente pesata sulla, bilancia dei riguardi personali. E non son certo codesti gli apostoli che potrebbero dire alle loro chiese quel che Paolo scriveva ai corinzi ed ai galati e Iacobo ai cristiani del suo tempo! Per poter dire o scrivere di cosiffatte nobili parole, bisogna essere degli Epafra: dei fedeli ministri di Cristo a pro di quelli che Dio ci ha affidati.

6. Ma se l'apostolo insiste sulla libertà del ministro di fronte alla Chiesa, egli insiste anche sui diritti che la Chiesa ha di fronte al ministro. Cotesti diritti, per Paolo, sono due: Diritto ad un insegnamento «in verità»; vale a dire, genuino e sincero. Diritto ad una operosità fedele; vale a dire, zelante ed attiva Colossesi 1:6-7. Ogni chiesa ha diritto ad un Epafra. Non è vera chiesa quella che subisce l'insegnamento del suo pastore senza il savio ed intelligente «esame delle fonti», che ha reso memorabili i santi di Berrea Atti 12:10-11; ed è presso che morta la chiesa che non esige dal suo pastore quel ministerio fedele Colossesi 1:7, quella perseverante preghiera e quell'ardente zelo, che Paolo incomiava nell'amico del cuore cfr. Colossesi 4:11-12.

9 3. L'oggetto e lo scopo della perseverante preghiera dell'apostolo. Colossesi 1:9-11.

Quindi è che anche noi, dal giorno che abbiamo ciò udito, non cessiamo di pregare per voi è di domandare che siate riempiti della profonda, conoscenza, della volontà di Dio, in ogni spirituale sapienza e intendimento, acciocchè vi conduciate in modo degno del Signore in guisa da essergli In ogni cosa graditi, producendo frutto in ogni opera buona e crescendo mediante la profonda conoscenza di Dio, essendo in ogni senso fortificati in proporzione della potenza della sua gloria, fino a che giungiate ad una completa ed allegra costanza e longanimità.

La ragione del pregar perseverante dell'apostolo è nelle belle notizie ch'egli ha ricevuto, delle condizioni spirituali nelle quali si trovano i colossesi.

Quindi è che

anche noi, vale a dire Paolo, Timoteo e tutti quelli che in ispirito facean loro corona, animati da un medesimo sentimento, e sospirando d'un medesimo cuore per l'avanzamento ed il final trionfo del Regno di Dio nel mondo cfr. Colossesi 1:3... (e va da sè che in questo noi anche Epafra, il latore delle care notizie, è compreso,)...

che anche noi... non cessiamo di pregare per voi e di domandare che siate riempiti...

La parola originale ( πληρωθητε) suppone che coloro per i quali Paolo prega, per quanto avanzati nella vita cristiana, non abbiano però raggiunto ancora la perfezione; ed implica al tempo stesso l'idea d'un progresso continuo; di quel progresso, senza del quale la vita cristiana, dopo essere stata per qualche tempo stagnante, intristisce e diventa malsana. E di che cosa dovranno essere ripieni i colossesi?

Della profonda conoscenza della volontà di Dio.

La parola greca che traduco qui per «profonda conoscenza» è ( επιγνωσις) epignosi e vale: conoscenza profonda, chiara, limpida, esatta, non sterile, ma tale che esercita una influenza profonda sulla vita religiosa dell'individuo. Essa è quasi una creazione dell'apostolo Colossesi 1:6,10; 3:10. Nel Nuovo T. non si trova che negli scritti di Paolo, nella lettera agli Ebrei 10:26; 2Pietro 1:1,2,3,8; 2:20. Il greco classico l'ha di rado. Qui forma un eloquente contrasto con un'altra parola che non pochi dei falsi dottori di Colosse usavano a tutt'andare e con gran prosopopea: Gnosi ( γνωσις) ecco il pomposo termine di cotesti gnostici embrionali, che credono di possedere la pietra filosofale della «conoscenza» e d'avere il monopolio della verità religiosa. E Paolo: Colossesi! i falsi dottori vi promettono una gnosi teorica, astrusa, trascendentale; una gnosi che assorbe la vita dell'intelletto, ma che non ha valore di sorta per la vita morale. Noi, invece, non cessiamo di pregare per voi e di domandare che siate riempiti di una epignosi che non sia frutto di nebulose speculazioni umane, ma di quel santo Spirito di Dio che rende «savi a salvezza» 2Timoteo 3:15, per il tempo e per l'eternità. La miniera a cui si arricchisce lo gnostico, è quella delle astrazioni filosofiche; la miniera a cui si arricchisce il credente, è la volontà di Dio; quella volontà, che è l'unica norma assoluta che s'abbia la vita umana...

che siate riempiti della profonda conoscenza della volontà di Dio.

E chi dice «volontà di Dio» non allude a qualcosa di gretto e di limitato, come i superbi falsi dottori potrebbero obiettare; l'apostolo mostra che più vasti orizzonti si aprono dinanzi a chi brama l'epignosi nella volontà di Dio.

Ogni sapienza e intendimento:

sta scritto su cotesti orizzonti; e la sintetica terminologia dell'apostolo diventa qui più ricca che mai. L'intendimento ( συνεσις) è l'organo che l'uomo ha dall'Eterno, e col quale, per via d'un misterioso ma sublime lavorio, egli afferra, trasforma ed assimila il cibo per la vita del proprio spirito. Non dite, o gnostici, che il nostro «cibo» è scarso; analizzatelo voi; io ve ne do soltanto la formula che tutto lo riassume: ogni sapienza... spirituale, però; ha cura di aggiungere l'apostolo; ed applica questo qualificativo ad ambedue i termini: sapienza e intendimento; per esprimere il concetto, che non è di cose carnali 2Corinzi 1:12; 1Corinzi 1:26, nè di cose che siano per la loro propria essenza spirituali 1Corinzi 2:13-14 ch'egli intende parlare, ma di cose che diventano spirituali allora soltanto che siano compenetrate dallo Spirito di Dio.

10 Ed eccoci allo scopo della preghiera dell'apostolo:

Acciocchè vi conduciate in modo degno del Signore in guisa da essergli in ogni cosa graditi.

Letteralm. acciocchè camminiate ecc. cfr. 1Tessalonicesi 2:12; Efesini 4:1 e la parola implica l'idea di moto, di progresso, di sviluppo. Lo scopo della «gnosi», secondo gli gnostici, era essenzialmente speculativo; lo scopo della «epignosi», secondo Paolo, è invece eminentemente pratico. Lo gnostico non è senza ideale per la sua vita terrena; il suo ideale si può definire così: «Accostarsi a Dio per via della speculazione filosofica». Anche Paolo ha un ideale per la vita propria e per quella del cristiano in genere; ed è: «Condursi in modo degno del Signor Gesù, fino ad essergli graditi in ogni cosa». La superiorità dell'ideale di Paolo di fronte all'ideale gnostico è evidente. L'ideale gnostico non può essere che il privilegio di pochi; l'ideale di Paolo può essere il privilegio di tutti. E com'è che il cristiano si condurrà in modo degno del Signore e si sforzerà d'accostarsi a quell'ideale che consiste nell'essere graditi in ogni cosa al Signor Gesù? In due modi, risponde l'apostolo.

1°) Producendo frutto in ogni opera buona e crescendo mediante la profonda conoscenza di Dio.

L'immagine è qui tolta dal gran quadro della natura. Il cristiano è come un albero; egli deve portar frutto; se non ne porta, non è buono ad altro che ad esser tagliato e ad essere gettato nel fuoco Matteo 3:10; 7:19. Il frutto che il cristiano deve portare, si chiama opera buona; l'opera, cioè, non fatta per la nostra gloriuzza personale, ma quella che nasce dalla fede, che ha per anima l'amore, e per iscopo la gloria di Dio. Ma l'albero non deve rimanere in una condizione stazionaria; deve crescere, per esser in grado di portar del frutto in sempre maggiore, abbondanza. Così è che l'apostolo aggiunge: e crescendo... e come crescerà egli? Mediante la epignogi di Dio, «mediante la profonda conoscenza di Dio». Vale a dire che più profondamente conoscerà il suo Dio, e più diventerà ferace. La conoscenza di Dio è come un oceano sconfinato che ci si para dinanzi; sospinti dal vento dello Spirito, navighiamo su cotest'oceano, e più che mai, fortificati nella vita interna, siamo resi adatti a produrre quelle «opere buone», che sono la miglior garanzia della genuinità della fede.

11 2°) Essendo in ogni senso fortificati in proporzione della potenza della sua gloria, fino a che giungiate ad una completa ed allegra costanza e longanimità.

Il credente, quindi, camminerà in modo degno del Signore e si sforzerà d'accostarsi a quell'ideale che consiste nell'esser graditi in ogni cosa al Maestro, non solo producendo frutto in ogni opera buona e crescendo mediante la «epignosi» di Dio; ma anche essendo fortificati in ogni senso.

In qual senso? Fortificato nella volontà, nell'intelletto, nel sentimento, «in ogni senso», insomma, dice l'apostolo. Ed in qual proporzione? Non in proporzione d'una potenza che il cristiano abbia in se stesso, ma ma in proporzione della potenza della gloria, stessa di Dio.

Non si tratta dunque di un potere inerente all'uomo che Dio sviluppi in coloro che riconoscono il solo vero ideale che sia dato alla vita umana, ma è la potenza della sua stessa gloria, che Dio, a chi cammina in modo degno del Signore, progressivamente rivela finch'egli sia giunto ad una completa ed allegra costanza e longaninimità.

Costanza ( ὑπομονη = costanza, perseveranza, perduranza) e longanimità ( μακροθυμια) dice l'apostolo; ed il Crisostomo ha spiegato così la differenza che passa fra i due termini: «Si è costanti», egli dice, «verso quelli ai quali non ci è dato di chieder conto di cosa alcuna; si è longanimi invece verso quelli, ai quali, volendo, potremmo ad ogni momento domandar conto di ogni cosa». La «costanza» e la «longanimità» del credente hanno, secondo Paolo, due caratteri sono complete, vale a dire, senza restrizioni; e sono allegre, perchè il cristiano è sicuro della vittoria della sua causa ed aspetta la sua corona non dal mondo ma da Dio.

Riflessioni

1. Impariamo, prima di tutto dall'apostolo ad avere tutte le volte che ci accostiamo pregando al trono di Dio, un oggetto ben definito in vista Colossesi 1:9. Una preghiera senza oggetto e senza costrutto è una profanazione; e piuttosto che presentarci a Dio senza sapere quel che chiedere, sarebbe meglio che non ci presentassimo affatto.

2. E qual'oggetto potremmo escogitare più nobile e più fecondo di quello che l'apostolo avea dato alla sua preghiera? Colossesi 1:9. Anche noi abbiam bisogno d'una conoscenza della volontà di Dio più profonda di quella che possediamo. La volontà di Dio è la norma che Dio ha data alla vita umana; e come possiam noi vivere senza conoscere codesta norma? Qualcuno dirà: Ma chi ce la rivelerà la volontà di Dio?... La volontà di Dio è già rivelata; e l'Evangelo è il libro che la contiene nella sua pura e definitiva espressione. Leggere l'Evangelo, meditare l'Evangelo, investigare l'Evangelo saranno dunque le sole e sicure vie per giungere alla conoscenza della volontà di Dio.

3. Fare della volontà di Dio l'oggetto delle nostre investigazioni è cosa sublime, ma non basta. Investigare per giungere a conoscere, era il sospiro dello gnostico; investigare per conoscere e conoscere per oprare, dev'essere il sospiro del cristiano Giovanni 7:17. Anche l'apostolo chiede a Dio ch'EGLI non soltanto dia ai colossesi «conoscenza», ma «conoscenza affinchè camminino in modo degno del Signore» Colossesi 1:10. Molti ideali ha la vita umana. Per gli uni, l'ideale è la gloria; per altri, sono le conquiste dell'intelletto; ma al disopra di tutti gli ideali più nobili, si muove l'ideale dell'apostolo: vivere in modo degno di Colui, che della umanità è il capo e il tipo perfetto; e così vivere in modo degno di lui, da giungere al punto d'essergli in tutto e per tutto graditi.

4. Il credente, dice l'apostolo, si avvicina a cotesto sublime ideale, in due modi Colossesi 1:10-11:

a Con una vita che produca delle opere buone, e che crescendo nella conoscenza di Dio si sviluppi, si espanda e dia degli frutti sempre più belli e sempre più abbondanti, e

b con la continua ricerca di quella forza che l'uomo non ha in se stesso, ma che Dio è sempre pronto a largamente comunicare.

12 4. La Redenzione: Colossesi 1:12-14.

Rendete grazie al Padre che vi ha posti in grado di aver parte all'eredità, dei santi nella luce. È Lui che ci ha strappati dall'imperio delle tenebre e ci ha trasportati nel regno del suo amato Figliuolo, nel quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati.

«Rendete grazie al Padre» dice l'apostolo. Tutte le ragioni che dell'apostolico «render grazie» avremo fra poco ad esaminare, sono già tutte quante virtualmente nascoste in questa grande e cara parola: Padre.

In lei si perdono le origini della nostra vita fisica e da lei procedono le fonti della nostra vita morale. L'apostolo comincia qui col dipingere con gran ricchezza di colori la condizione in cui si trova il cristiano. Ella è la condizione di colui che il Padre ha posto in grado d'aver, parte all'eredità dei santi nella luce.

È il Padre che li ha messi in grado; ciò dunque non è avvenuto a cagione dei meriti personali dei colossesi. Come sia che il Padre ha ciò fatto, l'apostolo ce lo dirà più tardi; per ora, egli insiste sull'idea di eredità.

Paolo, usando l'immagine di eredità, ha senza dubbio in mente il popolo d'Israele, l'erede del paese di Canaan. Per intender quindi con chiarezza il concetto apostolico, non dobbiamo fermarci all'idea che d'«erede» o di «eredità» abbiamo comunente; ma dobbiamo risalire a quella a cui l'apostolo si riferisce. Da noi, chi dice eredità vuol dire un qualcosa lasciato da chi è morto; Canaan, invece, non è per l'israelita un possesso che gli sia capitato per la morte di qualcuno; ma è un possesso che Dio, per un atto libero della sua grazia, ha equamente distribuito fra il popolo. E anche pel cristiano, l'eredità di cui l'apostolo parla, è una grande manifestazione dell'amore e della bontà di quell'Iddio che gli è Padre. Due altri pensieri Paolo aggiunge al concetto generale di eredità. Egli dice in quale ambiente ella si trovi e chi siano coloro che v'hanno diritto. Essa è la eredità dei santi nella luce.

L'eredità è nella luce.

Luce, in questo senso, vale «purità, conoscenza sempre più intima e sempre più sperimentale delle cose celesti». «Dio è luce» e «per la sua luce noi vediamo la luce» 1Giovanni 1:5; Salmi 36:9. E dov'è egli l'ambiente in cui rifulge questa luce? È nella vita presente o è al di là della tomba? Egli è qui e di là. Fra il tempo e l'«al di là» non è l'abisso che noi ci figuriamo; e la luce che ora ci splende nell'anima, è già il primo raggio di quella luce eterna che ci darà di contemplar Cristo per visione immediata. Fin da ora, se pure abbiamo afferrato il pensiero dell'apostolo, «l'eredità che è nella luce» basta a riempirci il cuore d'un gaudio ineffabile, preludio d'un altro gaudio che i celesti soltanto sono in grado di descrivere. L'apostolo, osserviamolo bene, non dice che il Padre vi ricetterà in grado... ma dice EGLI v'ha già posti in grado d'aver parte all'eredità dei santi.

Dei santi.

L'eredità dunque si ha soltanto quando abbiamo delle disposizioni morali che siano in perfetta armonia con l'ambiente in cui ella si trova. L'eredità è nella luce; e nella luce, nella sanità, vale a dire, in una intera separazione dal male ed in una completa consacrazione a Dio dee viver colui che a codesta eredità vuol partecipare.

13 E qual'è la crisi per la quale il cristiano ha dovuto passare per giungere nella condizione in cui si trova? L'apostolo, risalendo alle origini, rifà la storia della evoluzione spirituale sua e dei colossesi, e ci spiega com'è che Dio li ha posti in grado d'aver parte all'eredità dei santi nella luce. E prima di tutto, insiste sopra un fatto importante: V'è un imperio delle tenebre, dic'egli, e v'è un regno dell'amato Figliuol di Dio.

Con la parola imperio, l'apostolo allude ad un qualcosa di bene organizzato; e dicendo «imperio delle tenebre», egli ha senza dubbio in mente le categorie di Efesini 2:2; 6:12. A cotesto «imperio» Paolo contrappone un «regno»: il regno, cioè, in cui governa e giudica quel Figlio, che è l'eterno ed ineffabile oggetto dell'amore di Dio. Questo regno non è la Chiesa; fra poco si parlerà anche di lei; qui si tratta del regno; d'un regno che non è esclusivamente cosa del futuro, ma che, incomincia dal presente, perchè la sua storia data dal giorno in cui Dio, risuscitato Gesù dai morti, lo fece sedere alla propria destra come colui a cui «ogni podestà è data in cielo ed in terra» Marco 16:19; Romani 8:34; Atti 7:55; Matteo 28:18. L'«imperio delle tenebre» descrive la condizione in cui l'uomo si trova prima della conversione; il «regno dell'amato Figliuol di Dio» descrive quella in cui entra, dopo la sua conversione. Il passaggio dall'una all'altra condizione è descritto dall'apostolo con due parole grafiche ed energiche. È il Padre che compie un tanto miracolo d'amore; e lo compie in due modi: «strappandoci dall'impecio delle tenebre» e «trasportandoci nel regno del suo amato Figliuolo».

La strappandoci implica due idee: l'idea della profonda miseria in cui l'uomo è caduto per la sua volontaria ribellione a Dio, e l'idea della potenza di quel Padre stesso che rompe le nostre catene e ci affranca dalla schiavitù del principe delle tenebre. Il trasportandoci non è meno scultorio dello «strappare», ed esprime un completo cangiamento di luogo, che implica al tempo istesso un completo cangiamento di pensiero e di condotta.

14 La ragione ultima di tutti cotesti fatti, dice l'apostolo, è nella Redenzione; la quale, da quanto abbiam già visto Colossesi 1:13, può esser definita: «l'atto della grazia e della potenza di Dio, per il quale il peccatore, strappato dall'imperio delle tenebre, è trasportato nel regno di Cristo». La parola qui usata ad indicare la Redenzione, è preziosa ( απολυτρωσις). La si trova altre nove volte nel Nuovo T. Luca 21:28; Romani 3:24; 8:23; 1Corinzi 1:30; Efesini 1:7; 1:14; 4:30; Ebrei 9:15; 11:35, con vario significato: ma, il suo significato fondamentale, etimologico, è quello di una «liberazione ottenuta per mezzo del pagamento d'un riscatto. Così, nel passo dell'apostolo ai corinzi: «Cristo è la nostra redenzione» 1Corinzi 1:30; cfr. Ebrei 9:15, e nel testo classico ai romani: «In Cristo Gesù è la redenzione» Romani 3:21; concetto ch'ei ripete nel passo nostro e che spiega più ampiamente agli efesini, quando aggiunge che «in lui abbiamo la redenzione mediante il suo sangue. [Le parole: mediante il suo sangue, in alcuni manoscritti, sono state trasportate dal passo di Efesini 1:7 nel nostro. I migliori codici però non hanno questo trasponimento.] La Redenzione è un fatto che ha Cristo e Cristo solo per autore: «...nel regno del suo amato Figliuolo, nel quale abbiamo la redenzione»; e questa redenzione, nella vita di ciascun individuo, comincia con la remissione dei peccati.

Ella non è tutta nella remissione dei peccati; la redenzione completa consta della remissione dei peccati passati, della santificazione della vita presente e della glorificazione della esistenza futura. Tutto ciò vedremo in seguito. Intanto, senza tradire il pensiero apostolico, restringendo ad un momento solo quel fatto sublime che abbraccia il nostro passato, il nostro presente ed il nostro avvenire, tesoreggiamo l'ammaestramento dell'apostolo il quale c'insegna che il primo passo nel regno del Figliuol di Dio non può esser fatto se non da chi abbia ricevuto il perdono dei propri peccati. «Sta di buon cuore, figliuolo; i tuoi peccati ti sono rimessi...» Matteo 9:2. È questa la sola parola d'ordine o la sola tessera d'ingresso che ai mortali apra le porte del regno di Dio.

Riflessioni

1. Ripetiamo anche noi: «M'è pur toccata una bella eredità»! Salmi 16:6; e ripetiamolo pure con maggior effusione di quella di Davide. Il re profeta viveva in un tempo «d'ombre» Colossesi 2:17, e le sue aspirazioni varcavano di poco i limiti delle cose fugacemente passeggere. Noi viviamo nel tempo «delle realtà» Colossesi 2:17; il nostro sguardo può fendere il velo che separa il tempo dall'«al di là»; e nella contemplazione di quella gloria che ci è promessa, possiamo rallegrarci di una gioia che non teme delusione Colossesi 1:12. Non dimentichiamo però che codesta gioia e codesta certezza dipendono dal nostro rispondere ad una condizione, che è: dimorare nella luce: perchè l'ambiente di codesta eredità è la luce, è perchè gli è solo per via di un completo abbandono d'ogni «contaminazione di carne e di spirito» 2Corinzi 7:1 e per via d'una intera consacrazione a Dio che il mortale acquista delle cose eterne una coscienza sempre più viva e sempre più profonda. Guardiamoci dal pericolo di aspettar la «luce» soltanto al di là della tomba. Certo, quivi è la luce meridiana; ma intanto, non pochi fasci di quella luce già si proiettano sulla tenebria della vita presente. Siano codesti fasci dunque, come la colonna di fuoco che ci guidi tra le penombre del nostro terrestre pellegrinaggio. Uno sguardo troppo fisso nel futuro può renderci in modo fatale dimentichi del presente. Mai, per esempio, la, chiesa di Tessalonica fu così debole come quando spingeva lo sguardo febbricitante nell'avvenire; e Paolo ebbe a scriver parole di fuoco per richiamare i tessalonicesi alle cure di quel presente ch'essi aveano già macchiato di tristi e gravi segni di rilassatezza morale 1Tessalonicesi 4:3, 4; 4:11,12; 5:14; 2Tessalonicesi 3:6-16.

2. Al di sopra di tutto quel frazionamento che la politica ha compiuto e va sempre compiendo al disopra di tutte le separazioni che la natura ha tracciate coi suoi monti e coi suoi mari, v'è una divisione che Dio ci addita: «Impero delle tenebre» e «Regno della luce» Colossesi 1:13. Satana è il principe delle tenebre Matteo 9:34; 12:24; Marco 3:22; Luca 11:15; Cristo è il principe della vita e della luce Atti 3:15; Giovanni 1:4 lezione sinaitica. Molte sono le lotte alle quali i nostri padri e noi abbiamo assistito, e che abbiamo visto risolversi con varia fortuna; ma v'è una lotta secolare alla quale generazioni intere hanno assistito ed assisteranno ancora, finchè nei nuovi cieli e sulla nuova terra, trasformati dalla potenza del Vangelo, non s'oda, l'universale inno della gioia e della pace. Ed è da quest'altezza che deve considerar le cose chi voglia dare alle proprie idee un po' di più largo orizzonte. La lotta alla quale oggi assistiamo, non è lotta nobile, eroica, del bene contro il male, della luce contro le tenebre; è lotta civile, fratricida, fra dogma e dogma, fra dottrina e dottrina, fra chiesa e chiesa. E d'onde questo mordersi l'un l'altro dei partiti religiosi, se non dal fatto che non s'è inteso ancora che Cristo non si preoccupò mai della Chiesa ma si preoccupò sempre del Regno? ch'egli non venne a fondare una Chiesa, ma a stabilire un Regno? e che la Chiesa non è altro se non la «capitale» storica, visibile, di quel grande, ineffabile ideale che è il Regno di Dio? Non ci facciamo dunque un idolo della Chiesa; e qualunque sia quella che chiamiamo «la nostra chiesa», ricordiamoci che non è per il trionfo di lei che siam chiamati a combattere, ma per il trionfo del Regno; ed affrettiamoci sempre a stender la mano d'associazione a tutti quelli che, comunque si chiamino, pur desiderano con noi il trionfo del bene.

3. La parola in cui sta la vittoria per l'individuo per la famiglia e per la società, l'apostolo l'ha detta: «Redenzione» Colossesi 1:13. Fino al punto di ammettere l'esistenza d'una lotta fra il male ed il bene e di desiderare il trionfo del bene sul male, ci troviamo d'accordo con gran parte della umanità; ma è ai piedi della croce, che avviene la gran separazione. Pochi negano la necessità d'una redenzione morale; ma non tutti quelli che l'ammettono, la vogliono nella stessa maniera. Chi la vuole per mezzo della scienza; chi, per mezzo della speculazione filosofica; chi, per mezzo d'una civiltà senza religione. Non c'illudiamo La redenzione senza Cristo e senza croce è un sogno che non ha realtà che gli corrisponda. Non disertiamo Cristo; perchè chi può dire con l'apostolo: il Padre «m'ha strappato dall'imperio delle tenebre e m'ha trasportato nel regno del suo amato Figliuolo», ha nella propria coscienza il segreto degli futuri destini del mondo.

15 5. Il primato di Cristo: Colossesi 1:15-18

Egli è l'immagine dell'invisibile Iddio, il primogenito d'ogni creazione; perchè in lui sono state create tutte le cose che sono nei cieli e sulla terra; le visibili e le invisibili; siano troni, siano signorie, siano principati, siano potenze; tutte le cose sono state create per mezzo di lui ed in vista di lui; ed egli è avanti ogni cosa, e tutte le cose sussistono in lui. Ed è lui il capo del corpo, cioè, della Chiesa; lui, che è il principio, il primogenito d'intra i morti, affinchè in ogni cosa abbi a il primato.

L'espressione «amato Figliuolo» Colossesi 1:13 trasporta la mente dell'apostolo in un nuovo e grandioso mondo d'idee.

Egli è l'immagine dell'invisibile Iddio.

In greco immagine è la rappresentazione di un archetipo; e qui è ciò che rende visibile un archetipo che per se stesso è invisibile.

Dio è invisibile,

dice l'apostolo, ma Cristo è colui che fa visibile l'invisibile Iddio. In questo modo, l'apostolo, a quei falsi dottori ch'erano scaltramente penetrati nella chiesa di Colosse e che pretendevano di avvicinar Dio all'uomo per via di «emanazioni» o di elevar l'uomo a Dio sulle ali della speculuzione filosofica, l'apostolo, dico, non contrappone una teoria, ma contrappone la persona stessa del Cristo cfr. Giovanni 12:45; 14:10; 14:8-9; Giovanni 1:18.

Il primogenito d'ogni creazione.

Questo titolo di πρωτοτοκος (primogenito) pare essere stato riconosciuto come uno dei titoli dovuti al Messia cfr. Ebrei 1:6; e derivò forse da Salmi 89:28 che R. Nathan in Shemoth Rabba, 19. fol. 118. 4. interpretò come riferentesi al Messia. Israele è chiamato il primogenito di Dio Esodo 4:22; Geremia 31:9; e il termine passò quindi per facil transizione al Messia, considerato come il rappresentante ideale della razza. Ma come s'ha ella da intendere codesta espressione? Forse, come Ario, che Cristo non è eterno col Padre, ma la prima delle creature di Dio? O forse, come il Socino, che Cristo fu il primo essere della nuova creazione. spirituale? Tutto questo è impossibile perchè urta in modo disperato contro il passo che segue Colossesi 1:16. Il Nuovo T. ha due formule cristologiche parallele: «l'Unigenito di Dio» Giovanni 1:14,18; 3:16,18; 1Giovanni 4:9 e «il primogenito d'ogni creazione» Colossesi 1:15. Ambedue le formule contengono in sostanza la medesima idea; soltanto: la prima mette in rilievo le relazioni che passano fra Cristo e Dio; e la seconda mette in rilievo le relazioni che passano fra Cristo e le cose create. Ambedue le formule escludono affatto l'idea che nella eternità ci sia mai stato un momento, in cui il Cristo sia passato dal non essere all'essere; e se analizziamo bene la formula: «primogenito d'ogni creazione», ci troveremo quest i due fatti:

1° che Cristo era quando niuna cosa creata esisteva ancora; quindi, egli è distinto dal complesso della creazione, cfr. Salmi 90:2;

2° ch'egli non solo è prima d'ogni cosa creata e da ogni cosa creata distinto, ma è colui che su tutto l'universo ha un ineffabile primato.

16 «Egli è il primogenito d'ogni creazione, perché in lui sono state create tutte le cose che sono nei cieli e sulla terra... ecc.» Codesto perchè Colossesi 1:16 è la chiave di tutto quanto il passo e mostra che l'apostolo non pensò punto a darci una definizione metafisica delle relazioni che passano tra il Figliuolo ed il Padre in seno all'eternità, ma volle soltanto affermare il primato del Figliuolo nell'ordine delle cose create, insistendo sui due fatti: della «preesistenza» e della «suprema dignità di lui». Cotesta «suprema dignità» l'apostolo afferma con tre preposizioni «in lui, per mezzo di lui, in vista di lui».

In lui ( εν αυτω), perch'egli è la condizione della continua esistenza di tutte le cose cfr. Giovanni 1:4.

Per mezzo di lui ( δι αυτου), perchè «ogni cosa fatta è stata fatta per mezzo di Cristo, e senza Cristo niuna cosa fatta è stata fatta» Giovanni 1:3.

In vista di lui ( εις αυτον), perch'egli è stato da Dio costituito «erede d'ogni cosa» Ebrei 1:2 e «capo», onde tutte le cose, tanto celesti quanto terrestri, siano un giorno raccolte sotto di lui Efesini 1:10.

I falsi dottori di Colosse dicevano: Dio è infinitamente buono ed infinitamente savio; il mondo è materia; ed il peccato che è nel mondo, è inerente a cotesta materia; Dio quindi non solo è separato da cotesta materia, ma non può essere stato il creatore del mondo. E allora, come spiegare le origini dell'universo? Ecco a, che teoria erano giunti con le loro speculazioni. Ammettevano l'esistenza d'una catena, dirò così che univa Dio col mondo. Questa catena era composta di tanti esseri, difficili a definire, perchè un po' persone ed un po' astrazioni filosofiche; esseri, che più si scostavano da Dio per avvicinarsi al mondo, e più perdeano della loro spiritualità e diventavan materiali. L'ultimo della catena, l'essere cioè che toccava terra, era quello che avea creato la materia. In cotesta catena poi, essi distinguevano una lunga, interminabile gerarchia di «troni», di «signorie», di «principati» e di «potenze». Ed ecco perchè l'apostolo, con un linguaggio enfatico e vorrei quasi dire esagerando la vacuità dei paroloni gnostici, esclama: «in lui sono state create tutte le cose che sono nei cieli e sulla terra; le visibili e le invisibili; i vostri troni, le vostre signorie, i vostri principati, le vostre potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui ed in vista di lui!»

17 Ed egli è avanti ogni cosa, e tutte le cose sussistono in lui;

cioè, nello stesso modo che Dio, anche Cristo è avanti ogni cosa; e tutte le cose hanno in lui, come in Dio, «la vita, il moto e l'essere» Atti 17:28.

18 Ed è lui il capo del corpo, cioè, della Chiesa.

Il capo di quel corpo mistico che è composto della riunione di tutti i credenti 1Corinzi 12:12,27; Romani 12:4-5; Efesini 4:4,16; la sorgente della vita spirituale; la suprema autorità, alla quale soltanto sono dovuti l'omaggio d'una santa adorazione ed il tributo d'un'assoluta ubbidienza.

Lui, che è il principio;

non il primo dei credenti, ma l'«inizio» di quel nuovo ordine spirituale di cose, che trae da lui la propria origine. Si potrebbe, volendo, accostare questa espressione a quel che segue, e fare del «primogenito d'infra i morti un esplicativo del «principio»; intendendo allora: «Egli è la primizia; vale a dire, il primogenito d'infra i morti; o, per uscir dall'immagine: Cristo non è risuscitato per restar solo nella gloria; ma il Cristo risorto sta alla folla dei credenti che parteciperanno ad una simile risurrezione, come la prima spiga matura che si coglie con la mano, sta alla susseguente intera raccolta». Il concetto, allora, s'avrebbe naturalmente a connettere con 1Corinzi 15:20. Tuttavia, è meglio forse prendere «il principio» del testo, in senso assoluto; e connetterlo, se mai, con Apocalisse 3:14; il qual passo, mentre sembra appoggiare i concetti cristologici ariani e sociniani, corrisponde invece esattamente al «per mezzo di lui» del nostro testo ed a Giovanni 1:3,10; perchè non vuol già dire, come parrebbe a prima vista: «Cristo fu la prima delle creature di Dio», ma: «Cristo fu il mezzo per cui Dio chiamò tutte le cose dal non essere all'essere». Come dunque Cristo fu il mezzo della creazione dell'universo ed è quindi il «principio», il capo», nell'ordine delle cose fisiche, così, essendo egli il mezzo della creazione del mondo pneumatico, è il «principio», il «capo», nell'ordine delle cose spirituali.

Il primogenito d'infra i morti;

il primo, cioè, che abbia squarciato il velo che separa l'oscurità del sepolcro dalla luce dell'immortalità e della vita. Il primo, non il solo; perchè, anche in quest'ordine di cose, egli è il «primogenito fra molti fratelli» Romani 8:29. Cristo è «capo», a condizione d'essere il «primogenito d'infra i morti». Come potrebb'egli essere infatti la sorgente della vita spirituale, l'autorità suprema, colui che tiene i conduttori delle chiese nelle sue mani e che in mezzo alle chiese esercita una feconda attività Apocalisse 2:1, come potrebb'egli essere la «vite» Giovanni 15:1, il «fondamento» 1Corinzi 3:11; Efesini 2:20, se non fosse che un Gesù morto, sia pur come un martire del Vero, ma morto per sempre sul legno della croce? E qual garanzia della propria risurrezione avrebbero i credenti, se colui che ha detto: «Io sono la risurrezione e la vita» Giovanni 11:25, non fosse il «primogenito d'infra i morti», la primizia cioè di una risurrezione che assicura una doviziosa raccolta?

Affinchè in ogni cosa abbia il primato.

Così dunque, conclude l'apostolo, in ogni cosa, sia nell'ordine ontologico, sia nell'ordine fisico, sia nell'ordine spirituale, Cristo tiene il primato.

Riflessioni

1. Colossesi 1:15 Dio è invisibile; niuno ha mai visto Iddio; e niuno v'ha che possa in alcun modo penetrare in quel luogo santissimo che ci nasconde la gloria dell'Eterno. C'è nel fondo della coscienza umana un qualcosa che susurra: Dio esiste; ma questa voce della coscienza non è che la remota eco d'una testimonianza, che le nostre guaste relazioni con Dio hanno reso debole e fioca; e per cotesta eco non giungiamo ad una vera ed esatta conoscenza di Dio. Dinanzi allo spettacolo d'una serena notte d'Italia, o dinanzi all'immensità dell'oceano che sul lontano orizzonte sembra baciare misteriosamente il cielo, o sulla vetta d'un'alta montagna, in mezzo alla maestà dei ghiacciai eterni e delle caverne dei monti che si succedono a perdita d'occhio, erompe dal cuore della creatura un grido, che cerca la causa prima di tutte le cose; ma quel grido, anche se nasce dal presentimento dell'esistenza di un creatore, non può condurre ad una vera ed esatta conoscenza di Dio. Chi legge attentamente e con spirito d'onesto filosofo le pagine della, storia può su quella, scena del mondo ove le nazioni si urtano, si sfasciano e muoiono per poi risorgere e ricomporsi, può, dico, scoprire l'esistenza delle leggi che reggono e governano l'universo; ma neppur questa scoperta può condurre ad una vera ed esatta conoscenza di Dio. La voce della coscienza, il presentimento dell'esistenza d'un creatore, la scoperta delle leggi che reggono l'universo, non ci rivelano Iddio per quello ch'Egli è veramente; ed è appunto perchè non possono così rivelarcelo, che non bastano a soddisfare i bisogni della nostra vita morale. Cristo solo ci dice: «Dio ci è Padre» Giovanni 16:27; 20:17; Matteo 6:9 e tal Padre, che non ha mai cessato d'amare la ribelle creatura, e che a braccia aperte aspetta che il perduto figliuolo torni alla casa paterna Luca 15:11-24. Gli gnostici cercavano a tutto potere d'allontanare Iddio dal mondo; in Cristo, invece, Iddio ed il mondo s'incontrano e chiunque per la f ede s'accosta a Cristo, trova un Padre nel temuto ed invisibile Iddio Giovanni 1:12.

2. Colossesi 1:16 Chi di noi non s'è domandato in qualche momento della sua esistenza: D'onde son io venuto? Com'è ch'io vivo? Dove vo? E tutta questa immensa creazione che mi circonda, e tutto quell'immenso cielo cosparso di mondi che mi sovrasta come un infinito mistero, d'onde vennero, come vivono, dove vanno? Gli gnostici del tempo di Paolo tentavano di rispondere a codesti angosciosi problemi, popolando l'infinito mistero d'incerti fantasmi e di esseri più misteriosi che mai. Era un tentativo di risolvere l'immane problema, com'è un tentativo quello di parecchi dei nostri dotti d'oggidì che s'ispirano a Lucrezio e cercano di risolvere il problema per mezzo delle leggi meccaniche dell'universo. Paolo segue un'altra, via. EGLI ci conduce nel tempio della Rivelazione, e quivi cerca l'incognita d'ogni tormentoso problema. Un raggio di luce eterna parte dal trono di Dio che è in quel tempio, ed illumina un motto ch'era nascosto agli gnostici di Colosse, che è stoltezza per molti fra i dotti del nostro tempo, ma che risolve il problema della vita per chi, con l'umiltà d'un fanciullo Matteo 11:25; 18:3, s'accosta al Padre celeste. Il motto è scritto sotto l'immenso quadro dell'universo, e dice: Da Cristo, in Cristo, per Cristo. «Da Cristo», o da Dio per mezzo di Cristo, tutte: le cose son fatte passare dal non essere all'essere; «in Cristo» tutte le cose sussistono; ed è «in vista di Cristo» che tutte le cose sono e sono state create. L'universo dunque non è guidato da fantasmi gnostici, non da leggi fatali, nè corre a precipizio verso un'eterna distruzione, ma è guidato da savie leggi, create da una individualità onnipotente, e volge maestoso a gloriosi destini. Mentre anche noi siamo col «tutto» portati sulle ali della poten te parola del Cristo Ebrei 1:3, ricordiamocelo: La nostra nobiltà sta nell'essere proceduti da lui; la nostra forza, nel dimorare in lui; la nostra gloria, nell'aver parte ai trionfi di lui.

3. Cristo è il «capo della Chiesa» Colossesi 1:18; in Cristo tutti i credenti formano un corpo, del quale egli è l'unica ed assoluta autorità. E non soltanto il capo, ma il «principio», la radice, la vite, il fondamento. Ed è il capo ed il principio, in quanto è risorto e vive come garanzia della vita presente e della vita futura della sua Chiesa. Tutti questi pensieri hanno un valore incalcolabile. Se Cristo è il nostro capo, abbiamo ragione di non voler altro capo che Cristo, il quale ha dato se stesso per l'umanità, e le ha lasciato un esempio di vita immacolata e perfetta. Sta bene ch'egli è un capo «invisibile»; ma non è egli forse visibile agli occhi della fede? E non è questo, alla fin fine, che più conta nel mondo morale? E non ci ha egli stesso assicurati della sua continua presenza spirituale? Matteo 28:20; 18:20; Giovanni 14:23. Egli vive, dice l'apostolo; ed è appunto perchè vive, che possiamo «amarlo senza che lo vediamo» 1Pietro 1:8 Egli vive! Quant'è sublime questa parola, che dall'alba di quel mattino di Pasqua in cui fu prima pronunciata Luca 24:5-6,23; Marco 16:6, ha traversato i secoli ed echeggia ancora nel mondo, apportatrice di pace e di conforto! Non mi dite che il crocifisso riassume tutta quanta la grandezza del cristianesimo; no, è il sepolcro aperto di Giuseppe d'Arimatea che riassume codesta grandezza!

19 6. Il compiacimento di Dio che si esplica nei fatti della divinità di Cristo e della riconciliazione. Colossesi 1:19-20.

Poichè in lui si compiacque Iddio di far abitare tutta la pienezza della divinità e di riconciliare con sè tutte le cose per mezzo di lui, avendo fatto la pace mediante il sangue della croce d'esso; per mezzo di lui, dico; tanto le cose che sono sulla terra, quanto quelle che sono nei cieli.

Il poichè con cui comincia il passo, si riferisce all'«Egli è il capo del corpo» di Colossesi 1:18. Lo «abitare» della divinità in Cristo, spiega il suo esser «capo» e della Chiesa e dell'universo intero.

Iddio si compiacque.

«Iddio», che è il soggetto, non è espresso nel testo originale; ma è così evidente che, per amor di chiarezza, lo si può esprimere senz'altro. «Si compiacque»; non si tratta dunque nè di costringimento nè di necessità, ma si tratta d'una personalità libera e cosciente che di sua propria volontà esercita l'amor suo a pro del mondo.

Di far abitare tutta la pienezza.

La «pienezza» di che? La risposta è in Colossesi 2:9: «In lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità». E questa «divinità», che non in parte, non imperfettamente, ma in tutta la sua pienezza è in Cristo Iddio non ve l'ha fatta apparire per un istante, ma ve l'ha fatta abitare.

Il verbo κατοικεω Colossesi 2:9; Matteo 12:45; Luca 11:26; 2Pietro 3:13; Giacomo 4:5 significa la costante dimora di uno che ha preso intero possesso del luogo dove s'è stabilito. Cristo dunque è divino non in apparenza, ma in sostanza; non ad intervalli, ma in modo continuo e permanente.

20 E di riconciliare con sè tutte le cose per mezzo di lui, avendo fatto la pace mediante il sangue della croce d'esso; per mezzo di lui, dico, tanto le cose che sono sulla terra, quanto quelle che sono nei cieli.

Il primo fatto, dunque, in cui s'è esplicato il compiacimento di Dio, è «la divinità di Cristo»; il secondo, è «la riconciliazione». E di questa «riconciliazione» l'apostolo ci dà qui cinque dati di somma importanza. 1° La definizione; 2° l'autore; 3° il mezzo; 4° l'oggetto; 5° il modo.

1°) La definizione del fatto risulta chiarissima dall'analisi del termine usato dall'apostolo. Riconciliazione, diciamo noi; ma Paolo usa una stupenda parola, ignorata dal greco classico, ed appartenente in modo esclusivo al vocabolario del Nuovo Test. e del greco teologico: αποκαταλλασσω. È un composto di tre parole; di due preposizioni e d'un verbo. La prima preposizione ( απο) esprime l'idea di «stacco», di «separazione»: la seconda ( κατα) l'idea di «conformità»; il verbo ( αλλασσω) l'idea di «permutazione», di «cangiamento». Riassumiamo, ed avremo che la «riconciliazione», secondo Paolo, è «il fatto per cui la condizione di allontanamento e di separazione da Dio in cui prima si trovava l'universo, è stata mutata in una condizione di conformità alla volontà di lui».

2°) L'autore della riconciliazione è Dio. È Dio che si compiacque di riconciliare con sè tutte tutte le cose. Osservisi bene: «di riconciliare con sè tutte le cose»; non «di riconciliare sè con tutte le cose», perchè Dio non ha bisogno d'essere riconciliato con l'universo; Iddio non ha mai cessato d'amarlo, ed ha sempre aspettato ch'egli tornasse a, cercare in Lui l'armonia primitiva e quella pace di cui aveva tanto bisogno. E un'altra cosa è qui degna di nota. Quando l'apostolo dice che Dio «riconciliava con sè tutte le cose», quel con sè è indicato, nell'originale, con un modo ( εις αυτον) che esprime l'idea di «movimento verso Dio»; l'idea di moto progressivo, di una marcia lenta ma gloriosa, vorrei quasi dire, di tutte le cose alla volta di Dio.

3°) Il mezzo del quale Iddio si è servito per mandare ad effetto un programma così sublime, è Cristo. È per mezzo di lui ch'Egli ha compiuto cotesta riconciliazione.

4°) L'oggetto della riconciliazione è in queste tre parole: tutte le cose; parole che l'apostolo specifica più sotto: tanto le cose che sono sulla terra, quanto quelle che sono nei cieli. E qui s'apre dinanzi agli occhi di chi medita questi fatti, uno sconfinato orizzonte. La riconciliazione comincia sulla terra, dice l'apostolo, ma si estende fino nei cieli. E che voglion mai dire codeste parole? Paolo non ci dà ulteriori spiegazioni; la Scrittura intera è muta su questo soggetto; la prudenza quindi consiglia che anche noi ci tacciamo. Posti nondimeno così sulla riva d'un oceano immenso, vien fatto naturalmente di domandarci - Questa riconciliazione che sulla terra ha per oggetto la creatura lontana da Dio, come mai può ell'avere un oggetto anche fra le cose dei cieli?... Nei cieli tutto è riconciliato; qual'altra riconciliazione può esser dunque possibile lassù dove tutte le cose formano una ineffabile armonia? Origene, il più ardito fra i Padri della Chiesa, vedeva in questo pensiero di Paolo la promessa d'una futura riconciliazione con Dio di tutti quegli spiriti malvagi che l'apostolo dice esser «nei luoghi celesti» Efesini 6:12 e dello stesso Satana che è il loro capo. Esagerava egli?... O forse, la riconciliazione che Cristo rende possibile fra l'universo e Dio, non rend'ella anche possibile una più intima comunione fra le intelligenze celesti e l'Eterno, da che sappiamo che la conoscenza degli angeli, per esempio, non è perfetta ma perfettibile e progressiva? 1Pietro 1:12. O forse l'apostolo non vide egli questa terra, che fu scelta da Dio ad essere il teatro del sacrificio che dovea produrre la riconciliazione, non la vide egli, dico, come il punto di partenza d'un rinnovamento morale dell'intera creazione? come il centro da cui dovessero partire i raggi destinati a beneficare anche la scintillante miriade di quei mondi che nelle notti serene e tranquille ci sorridono, e che pur sono per noi tanti ineffabili misteri?... L'apostolo non fa che sollevare per un momento il lembo del velo che ci nasconde chi sa quali cose, ma lo rilascia immediatamente cadere. È inutile quindi che ci mettiamo a fantasticare su cose intorno alle quali, in fin dei conti, non potremmo arzigogolare che delle congetture. Val meglio piegar le ginocchia sulla riva dell'oceano sconfinato, e adorare in silenzio.

5°). Il modo con cui Dio per mezzo di Cristo riconciliava con se tutte le cose che sono in terra ed in cielo, è così graficamente descritto dall'apostolo: Avendo fatto la pace mediante il sangue della croce d'esso; per mezzo di lui, dico. Ecco le quattro parole che spiegano il modo con cui la riconciliazione è passata dallo stato d'idea, com'era nella mente di Dio, allo stato di fatto, sul terreno della storia: Pace, sangue, croce, lui. «Avendo fatto la pace»; vale a dire, avendo acconsentito a perdonare, avendo steso di sua iniziativa, e pel primo, la mano alla creatura ribelle. «Mediante il sangue»; e allude all'atto del sacrificio che Gesù ha compiuto, quando, come sommo sacerdote del nuovo Patto, ha recato nel luogo santissimo non il sangue d'una vittima, ma il proprio sangue Romani 3:25; Ebrei 10:14,18,20; 1Pietro 1:19. «Il sangue della croce», continua l'apostolo; ed accenna al supplizio a cui Gesù, vittima volontaria, si sacrò per il bene del mondo. E come mai Paolo insiste egli tanto sul fatto storico del sacrificio di Cristo? Per combattere due tendenze che cominciavano a manifestarsi nella chiesa di Colosse: l'una, frutto d'una esagerata spiritualità, mirava a ridurre la riconciliazione ad un fatto pneumatico, in cui non era data alcuna parte alle sofferenze di Cristo; l'altra; come vedremo poi, mirava ad attribuire a certi esercizi ascetici il valore del sacrificio di Cristo. L'apostolo non entra in discussioni teoriche; egli afferma i fatti ed invita i suoi lettori attorno a quella croce, ove ogni esagerata spiritualità ed ogni baldanza d'opere meritorie debbono sparire dinanzi a Gesù morto «a cagione dei nostri peccati» Romani 4:25. Ed un altro pericolo aveva in vista l'apostolo; un pericolo che minacciava la chiesa di Colosse, e che consisteva nell'attribuire al sangue di Cristo una virtù magica e meccanica. Quindi è ch'egli conclude col ripetere per la seconda volta «Avendo fatto la pace mediante il sangue della croce di lui... per mezzo di lui, dico». Cioè, non mediante un sangue che per virtù magica riconcili con Dio tutto quello che tocca, ma mediante la persona di Cristo, io dico, insiste l'apostolo; di quel Cristo che si fece uomo, che traccia alla umanità di cui fu capo la via dell'abnegazione, e che con le sue sofferenze e col supplizio della croce coronò quell'opera, in cui sta il segreto della riconciliazione dell'universo.

Riflessioni

1. Abbracciamo con un colpo d'occhio la base dottrinale, su cui l'apostolo fonderà più tardi i suoi ammaestramenti e le sue esortazioni. Dio, Cristo, l'universo; ecco le tre parole intorno alle quali s'aggira il pensiero dottrinale dell'apostolo. Iddio, per un atto libero della sua volontà e del suo beneplacito, fa abitare in Cristo tutta la pienezza della divinità e riconcilia con sè l'universo per mezzo di quel Figlio che, col sacrificio di se stesso, rende possibile la pace fra la creatura ed il Creatore. L'universo si muove non fisicamente soltanto, ma anche moralmente; e si muove alla volta di Dio, sospinto dalla potenza, di quello Spirito, che sul terreno della storia trasforma in un fatto reale ciò che Cristo ha già compiuto virtualmente sulla croce. Questa riconciliazione, che è il punto di partenza di quella che Cristo chiamò «palingenesi» cosmica Matteo 19:28, non sarebbe da parte nostra che un sogno dorato ma vano, e non sarebbe da, parte dell'Eterno che un'opera inutile, se, ad onta della mediazione di Cristo, l'universo dovesse, lontano dal Creatore gemere eternamente nelle catene del male. Ma è il Creatore che ha scritto in fronte a quest'universo il motto: Alla volta di Dio! Ed in quel motto sta la promessa della completa sconfitta del male. Come, quando, ed in quale estensione l'universo sarà finalmente compenetrato dalla luce della riconciliazione, non ci è dato di stabilire. Non importa Meditiamo le parole dell'apostolo; esse son l'eco fedele di quelle che Gesù pronunciava, quando, alla vigilia della sua morte e del suo trionfo, diceva: «Ora sarà cacciato fuori il principe, di questo mondo; ed io, quando sarò stato elevato da questa terra, trarrò tutti a me» Giovanni 12:31-32. Contempliamo in fede il giorno divino di quella che Pietro chiamava «l'universale restaurazione» Atti 3:21; e col cuore pieno di inni di rendimento di grazie, anche noi facciamo al mondo l'ambasciata per Cristo come se Dio esortasse per nostro mezzo: «Iddio ci ha riconciliati con sè mediante Gesù; siate dunque riconciliati con Dio!» 2Corinzi 5:18,20.

21 7. La riconciliazione dal punto di vista pratico dell'oggetto, dell'autore, del mezzo, dello scopo e della condizione che implica: Colossesi 1:21-23.

E voi, che un tempo eravate estranei e nemici nel pensiero e nelle opere malvagie, nondimeno, ora, v'ha riconciliati nel corpo della carne di lui, per mezzo della morte d'esso, per farvi comparire dinanzi a sè santi, e immacolati, e irreprensibili, se pur dimorate nella fede fondati e saldi, e non smossi dalla speranza dell'Evangelo che avete udito, che fu predicato in tutta la creazion e sotto il cielo, e del quale io Paolo, sono stato fatto ministro.

La riconciliazione è un fatto universale, ha detto l'apostolo; quindi, un fatto che concerne anche i colossesi.

«E voi, che un tempo eravate estranei e nemici nel pensiero e nelle opere malvagie...».

Estranei;

la parola originale vuol dire «reso alieno», «fatto straniero». «disaffezionato»; e s'intende che il complemento sottinteso è «da Dio» cf. Efesini 2:12; e il termine implica che l'uomo non è sempre stato così; che era buono un tempo, ma che poi un nemico l'ha strappato dalle braccia del Padre e gli ha avvelenato il pensiero; ond'egli è divenuto estraneo non solo, ma anche nemico nel pensiero.

Il suo pensiero è divenuto la sede della inimicizia, del peccato; vale a dire d'ogni ribellione contro le varie manifestazioni della volontà di Dio. E se tale è il pensiero, quale sarà l'ambito in cui egli spiegherà la propria attività? Egli non potrà essere che un ambito d'opere malvagie.

22 Nondimeno, ora, v'ha riconciliati;

vi ha tratti da codesto stato d'inimicizia, e vi ha ridotti ad uno stato di conformità al suo volere. E l'autore di questa riconciliazione è chiaro che non è altro che Dio. E per qual mezzo ha Iddio compiuto cotesta riconciliazione?

Nel corpo della carne di lui, per mezzo della morte d'esso.

Perchè mai questa strana fraseologia? Più conosceremo l'ambiente storico dell'apostolo, e più chiaro vedremo il perchè di questa fraseologia. Ecco varie ragioni di questa formula apostolica così intricata. Prima di tutto l'apostolo avea più sopra Colossesi 1:18 parlato della Chiesa e l'avea definita «il corpo di Cristo»; ora, gli premeva qui di evitare ogni equivoco; ed usando la frase: «Nel corpo della carne di lui» egli sembra voler dire: Badate, quand'io dico che Dio vi ha riconciliati a sè per mezzo d'un corpo, io non intendo parlare della, Chiesa, ma «del corpo della carne di Cristo». (Anche più tardi a Marcione che cassava dalla formula apostolica le parole «della carne di lui» e riferiva il «corpo» alla Chiesa, Tertulliano rispondeva: No; «in eo corpore in quo mori potuit per carnem mortuus est, non per ecclesiam sed propter ecclesiam» Adv. Marc. V. 19.) E poi, c'era una tendenza pericolosa, che aveva i suoi rappresentanti anche nella chiesa di Colosse, e»che più tardi, allargandosi maggiormente, dovea purtroppo diventare una delle piaghe delle chiese orientali; alludo a quel docetismo che negava la realtà del corpo di Cristo, per farne null'altro che una vana parvenza. No, dice l'apostolo, mirando a cotesta idea; quand'io parlo del corpo di Cristo, intendo «il corpo della sua carne»; non un qualcosa, di fantasmagorico, ma un qualcosa di vero e di reale. E finalmente, come abbiamo già notato, nella chiesa di Colosse si moveva un'aura sospetta di esagerata spiritualità; e non è meraviglia se, in un ambiente nel quale il languido misticismo orientale viveva in eccellenti relazioni con l'angelologia gnostica, vediamo spuntare la teoria di una riconciliazione «spirituale»; che è quanto dire, di una riconciliazione compiuta non sul terreno dei fatti reali, ma piuttosto nel mondo delle idee, delle astrazioni, del sentimento. «No, no, dice l'apostolo; intendiamoci bene; quand'io parlo di riconciliazione, non voglio equivoci; io parlo di quella che è avvenuta nel corpo della carne di Cristo, e mediante il fatto reale, storico, della morte di lui.

Tutto ciò, mi pare, spiega a sufficienza la formula ridondante del passo. E nondimeno, quando si conosce un po' intimamente l'apostolo, si è tentati di dare anche un'altra ragione di codesta ridondanza. Che l'apostolo sia uomo di santi entusiasmi, è cosa fuori di dubbio; il suo cuore arde d'affetto per quel Cristo a cui s'è dato interamente; e quando, scrivendo ai suoi fratelli nella fede, si trova di fronte ad uno di quei fatti in cui la stanca anima sua ha trovato pace e riposo, la penna, gli corre veloce e la sua frase gira e rigira, come se andasse in cerca d'un modo che valesse a significare esattamente quello che all'apostolo sovrabbonda nel cuore. Cfr. Romani 8:38-39; 2Corinzi 4:17; Efesini 3:17-19. E qui, dinanzi al gran fatto della riconciliazione, prorompe in queste parole: È Lui, è Dio che, ad onta della vostra inimicizia, vi ha riconciliati per mezzo della morte di Gesù nel corpo della carne di lui; del Figliuol di Dio, che s'è umanato per voi; che per addurvi all'Eterno, ha sofferto la morte!».

Per farvi comparire dinanzi a sè santi, e immacolati, e irreprensibili.

E lo scopo pratico della riconciliazione; scopo che consiste nel ristabilimento dell'ordine nella vita morale di ciascun individuo. Le principali caratteristiche di colui che nel pensiero e nelle azioni si manifesta nemico di Dio, sono:

   a) mondanità ed oblìo dell'Eterno;

b) impurità;

c) scandalo.

La riconciliazione, se raggiunge nella coscienza e nel cuore dell'uomo il proprio scopo, crea delle altre caratteristiche del tutto opposte a coteste, che sono individualmente e socialmente letali:

a) santità, che è separazione del male ed intera consacrazione a Dio;

b) immacolatezza, ossia purità di vita;

c) irreprensibilità, che è quanto dire una condotta che non solo non è di scandalo, ma che è di esempio e di edificazione al prossimo.

Questa vita morale così ristabilita, non è un qualcosa di monco o d'intermittente, ma è un qualcosa di completo e di continuo; perchè Dio la restaurò in modo, che potesse progressivamente evolversi fino al gran giorno della perfezione assoluta di tutte le cose, che è il giorno in cui Egli stesso chiamerà l'individuo a comparire dinanzi a sè.

23 Se pur dimorate nella, fede fondati e saldi, e non smossi dalla, speranza dell'Evangelo che avete udito, che fu predicato in tutta la, creazione sotto il cielo, e del quale, io Paolo, sono stato fatto ministro.

E la condizione; espressa prima in forma positiva, e poi ripetuta in forma negativa.

Dimorare,

o continuare, o perseverare

nella fede fondati e saldi

è la condizione in forma positiva. Il fondati è di coloro che hanno scoperto ed accettato per la propria vita morale l'unico possibile fondamento, che è Gesù Cristo 1Corinzi 3:11. Il saldi si riferisce piuttosto alle interne energie dei fedeli, basati sul vero fondamento; degli fedeli, cioè, che fondati sulla roccia crescono forti, incrollabili «ad omnia parati». Segue la forma negativa della condizione che dice: Non smossi nè dal vento di dottrine contrarie, nè da impulsi egoistici o altramente carnali, dalla speranza dell'Evangelo che avete udito; di quell'Evangelo del quale l'apostolo è un ministro, non per diritto di nascita nè per meriti propri, ma per la grazia che Dio gli ha conferita: «Di cotesto evangelo, io, Paolo, sono stato fatto ministro».

Riflessioni

1. L'apostolo non esagerava quando, presentandoci l'uomo così com'è, lo chiamava un «estraneo ed un nemico di Dio nel pensiero e nelle opere malvagie Colossesi 1:21. Nel nostro secolo di progresso si sorride alla parola «peccato»; ed il racconto della Genesi, per esempio, che narra le prime infelici prove dell'umanità bambina sulla via del proprio sviluppo morale, pare, generalmente, una fola da raccontarsi a veglia. Eppure, è nella nostra coscienza che anche oggi codesto dramma si riproduce; anche oggi una malefica potenza strappa gli uomini dalle braccia di Dio; ed anche oggi la mente umana che si ribella alla volontà dell'Eterno, manifesta i suoi portenti in una spaventevole congerie d'opere malvagie. Vola il nostro pensiero sulle ali della corrente elettrica; sibila la vaporiera che esce vittoriosa dalle viscere delle montagne, o che fende impavida le onde immense dell'oceano; trionfa la scienza nella età del metodo sperimentale, e sta bene; ma completiamo il quadro: a fiumi irrompe la corruzione nelle vie delle nostre città; la miseria e la fame, figlie il più spesso di codesta corruzione, minano le basi della società moderna; e gl'ideali più nobili, d'onestà, d'abnegazione e di dovere, ogni giorno ed in più desolanti proporzioni che mai, cedono il posto all'immoralità, all'egoismo ed alle più strane e feroci teorie del diritto. Io saluto con entusiasmo i trionfi della scienza; ma sostengo, nel medesimo tempo, ch'essi non bastano a dare ad un popolo l'equilibrio morale; e ripeto con l'apostolo che codesto equilibrio sarà sempre un'utopia, finche l'individuo si ostini a rimanere «nel pensiero e nelle opere malvagie, nemico di Dio».

2. Quando due persone si sono divise per un'offesa corsa fra loro, di solito non è l'offeso che prende l'iniziativa per trattare una riconciliazione, ma è l'offensore, piuttosto, a cui o piange il cuore per la perdita dell'amico, o la coscienza rimorde per il male compiuto. Nel nostro caso, non è l'offensore che ritorna al suo Dio, ma è Dio, l'offeso, che cerca il peccatore Colossesi 1:22; cfr. Isaia 1:18.

3. Riconciliati! Colossesi 1:22 Non a cagione di meriti personali dell'offensore, non par via di speculazioni filosofiche, non per via di teorie trascendentali, ma per mezzo della croce. Raccogliamoci in ispirito attorno alla croce! Là dove il Figliuol dell'uomo esalò l'ultimo sospiro, il mondo e Dio s'incontrarono. Il principe di questo secolo vide cotest'incontro e tremò, come uno straniero che, virtualmente spodestato, aspetti di giorno in giorno d'esser cacciato dai domini che contava per suoi. Un cantico di trionfo parve echeggiare per l'aria; e quando all'alba di Pasqua i discepoli seppero e videro che il Cristo era risorto, passarono dall'angoscia del dubbio all'allegrezza della fede; e riavutisi dai primi stordimenti prodotti da una gioia che vinceva in loro ogni altro sentimento, si dettero a predicare con divino entusiasmo la croce, perchè in quella croce, che avea non distrutte ma trasfigurate le loro speranze messianiche, capirono che stava il segreto della redenzione morale del mondo.

4. Verrà un giorno in cui, caduto il velo mortale, lo spirito nostro comparirà dinanzi al tribunale di Cristo 2Corinzi 5:10; e sarà allora ch'egli riudirà le solenni parole che abbiamo studiate. Chi sa quante delusioni, in cotesto momento così grave e decisivo!... Gli uni s'aspetteranno che ad esser ammessi al godimento della promessa eredità Colossesi 1:3,24; 1Pietro 1:3-5, basti il nome della chiesa alla quale hanno appartenuto; altri, che basti quello della confessione di fede a cui hanno aderito; altri ancora, che basti quello della forma d'ortodossia che hanno difesa con tanto accanimento... ed invece, tre parole soltanto saranno pronunciate; ed a quelle tre parole chi potrà rispondere a fronte alta, vestito della bianca stola d'una santificazione strenuamente compiuta Apocalisse 6:11; 7:13-14 ed avendo in mano la palma d'una vittoria legittimamente guadagnata Apocalisse 7:9; 2Timoteo 2:5, avrà parte alla celeste eredità. Le tre parole saranno quelle appunto del nostro passo: «Santi, immacolati, irreprensibili» Colossesi 1:22.

5. L'evitare ogni futura delusione, dipende da noi Colossesi 1:23. Dimoriamo nella fede; diamo all'edificio della nostra vita spirituale il vero fondamento, che è Gesù Cristo; e così «fondati e saldi», cresciamo in ogni cosa, pieni di quel nuovo vigore che lo Spirito dà a chi per Cristo si mantiene in una costante comunione con Dio. La speranza dell'Evangelo viva del continuo sul nostro orizzonte; e in mezzo alle tentazioni ed alle bufere della vita, possa la parola dell'apostolo risonar sempre nelle nostre coscienze come l'eco d'una voce divina: «Fratelli, non vi lasciate smuovere dalla speranza dell'Evangelo che avete udito; ed un giorno, Colui che per mezzo di Cristo vi ha riconciliati con sè, vi farà comparire dinanzi al suo trono, santi, irreprensibili, immacolati!».

24 8. Un'esperienza personale dell'apostolo ed il concetto ch'egli s'è fatto del ministerio evangelico e del messaggio che Dio gli ha confidato Colossesi 1:24-27.

Ora, Io mi rallegro nelle mie sofferenze a pro vostro; e nella mia carne completo quel che mi manca delle afflizioni di Cristo pel bene del corpo di lui che è la Chiesa, della quale io sono stato fatto ministro, secondo l'ufficio datomi da Dio per voi; il quale ufficio è quello di annunziare nella sua pienezza la parola di Dio; il mistero, voglio dire, occulto da secoli e da età, ma ora svelato ai santi di lui, ai quali Iddio ha voluto far conoscere quale sia la gloriosa ricchezza di cotesto mistero fra i Gentili: cioè, Cristo fra voi la speranza della gloria.

L'apostolo ci parla di una sua esperienza personale:

Ora, io mi rallegro nelle mie sofferenze a pro vostro; e nella mia carne completo quel che mi manca delle afflizioni di Cristo pel bene del corpo di lui che è la Chiesa.

E in che consiste ella questa sua esperienza? Al centro del concetto apostolico sta qui l'idea delle «afflizioni di Cristo»; delle afflizioni, cioè, che Cristo ha patite durante il suo ministerio terrestre. Le afflizioni di Cristo possono esser considerate da due punti di vista, che chiamerei «teologico» il primo, e «storico» il secondo. Per il senso «teologico», le sofferenze di Cristo sono state la causa della nostra redenzione. Esse cominciano dal momento in cui Cristo «spogliò se stesso prendendo forma di servo» Filippesi 2:7, e finiscono sulla croce con la sublime parola: «Padre, io rimetto lo spirito mio nelle tue mani» Luca 23:46. Alle afflizioni di Cristo, considerate a questo modo, l'uomo non può nè togliere nè aggiungere nulla. Ma le medesime afflizioni possono esser considerate da un altro punto di vista, che ho chiamato «storico»; e di queste sofferenze, così considerate, è necessario che ogni credente prenda la sua parte Ebrei 13:13; Matteo 10:24; 20:23; 1Pietro 4:13; Romani 8:17. Ogni credente, e soprattutto ogni ministro di Cristo, ha ricevuto da Dio una certa definita misura, un certo determinato «calice» Matteo 26:39 di codeste afflizioni. Il «calice» non è per tutti lo stesso; è più capace per gli uni, è meno capace per altri; non importa; quel che importa si e che, in tutti i casi, il calice dev'esser empito fino all'orlo. Or Paolo s'ebbe un calice ben ampio, se potè scrivere quel che scrisse in 2Corinzi 11:24-28; ma il calice dell'apostolo è tutt'altro che pieno, nell'atto in cui egli sta scrivendo le parole che studiamo. Egli è in prigione per l'Evangelo; e in prigione, dimentico di se stesso, è angustiato da quella preoccupazione che traspare da tutta quanta questa sua lettera. A Colosse, a Laodicea, a Jerapoli, ci son delle chiese che il vento d'una falsa filosofia tenta sviare dal retto sentiero; che un fanatico misticismo minaccia di contaminare; che i soliti giudaizzanti, nemici implacabili dell'apostolo, fanno di tutto per subornare. E chi può ridire lo spasimo d'un apostolo come Paolo, che sa vitto questo e non può volare in Frigia, a soccorrere i suoi fratelli nella fede, perchè trattenuto a forza nel fondo d'una prigione a Roma? Ma Paolo è cristiano; non si ribella contro le spesso incomprensibili dispensazioni della Provvidenza, ed esclama: «Io finisco di riempire il calice che m'è toccato come mia parte delle afflizioni di Cristo; e in questo pensiero mi riposo; non solo, ma mi rallegro in mezzo alle mie sofferenze, perchè sento che «la sua grazia mi basta» 2Corinzi 12:9, e perchè so che le mie sofferenze produrranno qualche benedizione per voi e per quella Chiesa che è il corpo di Cristo». E la Chiesa, infatti, anche oggi gode con animo commosso di codeste benedizioni; e meditando le lettere che Paolo scriveva dal carcere, entra più che mai nei misteri della propria vita morale, cresce nella conoscenza dell'amore di Cristo, e si persuade ogni giorno di più che l'Evangelo non è una fredda esposizione di dottrine astratte, ma una «potenza di Dio che salva ogni credente» Romani 1:16. Così, «come le sofferenze di Cristo abbondarono in Paolo, oggi, per mezzo di Cristo, abbonda la consolazione della Chiesa» 2Corinzi 1:5. L'allusione alla Chiesa, che è «il corpo di Cristo» cfr. anche Colossesi 1:18, trae ora l'apostolo a spiegare qual sia il concetto ch'egli s'è fatto di quel ministerio al quale Iddio l'ha chiamato.

26 Il mistero, voglio dire, occulto da secoli e da età, ma ora svelato al santi di lui, ai quali Iddio ha voluto far conoscere quale sia la gloriosa ricchezza di cotesto mistero fra i gentili: cioè, Cristo fra voi la speranza della gloria il mistero

che Dio, per un atto della sua libera grazia, s'è compiaciuto di far conoscere e di affidare all'economo Paolo, è «la vocazione degli Gentili», ossia l'invito fatto ai pagani d'avvicinarsi a Dio per mezzo ili Cristo. La parola «mistero» è tolta ad imprestito da quelle antiche conventicole, in cui certe dottrine e certi riti eran fatti conoscere agli iniziati soltanto. Il mistero che Paolo proclama, per quanto adombrato talvolta dai profeti del popolo ebraico, fu per lungo ordine di secoli occulto; ma finalmente è svelato; non a tutti, però, aggiunge l'apostolo; ai santi solamente; il che è quanto dire, ai seguaci del Cristo. Quando si dice «mistero», s'intende una cosa segreta, impossibile o difficile a capire 1Corinzi 13:2; 14:2. Per Paolo, come pel Nuovo T. in generale, «mistero» vale specialmente un fatto che è stato occulto, incompreso per del tempo, ma che è diventato perfettamente chiaro e intelligibile, quando qualcuno l'ha dichiarato. Vedi 1Corinzi 15:51; Romani 16:25; Efesini 3:9 e simili. Spiegato così il senso della parola «mistero», certi passi, nebulosi ed oscuri, diventano limpidi e perfettamente intelligibili. Vedasi, per esempio, 1Corinzi 4:1. «Così faccia l'uomo stima di noi, come di ministri di Cristo e di economi dei misteri di Dio». Il che non vuol già dire: «di economi o dispensatori di cose trascendentali, incomprensibili, sibilline», ma «di proclamatori di quelle verità religiose, le quali, siccome l'uomo non può giungere a scoprire da sè, Iddio gli rivela per mezzo dei suoi servitori».

27 Cristo fra voi la speranza della gloria.

Ecco la dichiarazione del mistero. La qual dichiarazione è il colpo finale dato all'edificio del particolarismo ebraico; è la bandiera dell'universalismo del Vangelo issata sulle ruine del pregiudizio giudaico. Non più barriere, non più distinzioni religiose, non più privilegi nè vanti nazionali, ma Cristo anche fra voi, colossesi! Cristo anche fra voi, o sprezzati incirconcisi! È sonata l'ora della vostra spirituale riabilitazione! Anche per voi c'è speranza di gloria! Affollatevi intorno a Cristo, perchè più vicini e più stretti vi terrete a lui, e più distinta v'apparirà sull'orizzonte la visione della vostra gloria futura!

Riflessioni

1. Immaginiamoci Paolo nel carcere. Immaginiamocelo sofferente, scampato per miracolo da una lunga serie di angosciose tribolazioni, dilaniato dal pensiero che mentre a, Colasse i lupi sparpagliano il gregge, egli non può correre a dare, ove occorresse, «la vita sua per le sue pecore»; immaginiamocelo levare in alto il calice già quasi pieno delle afflizioni di Cristo, ed esclamare: ora io mi rallegro nelle mie sofferenze, perchè veggo che il mio calice, destinato ad esser pieno, sta per esserlo finalmente; e perchè so che questo calice, a voi, o colossesi, recherà gran benedizione! Colossesi 1:24. È facile consolare un fratello afflitto quand'abbiamo il cuore pieno di gioia: è facile anche, ripensando alle nostre sofferenze passate e considerando con riconoscenza verso Dio il pacifico frutto di giustizia ch'esse hanno dato», esclamare con Davide: Salmi 119:71,67; ma, ben altra cosa è, in mezzo al generale abbandono, in mezzo alle delusioni della vita, in mezzo a tormenti d'ogni specie, levare in alto il calice del nostro dolore ed esclamare: «Ora io mi rallegro nelle mie sofferenze!...» È soltanto nella comunione intima con Dio, che l'uomo può far l'esperienza di questa celeste trasfigurazione delle proprie sofferenze, e questa comunione non è il monopolio di pochi, ma è il privilegio di tutti quanti la cercano e la vogliono.

2. Al ministro del Vangelo l'apostolo dice Colossesi 1:25-26: Rientra in te; esamina un'altra volta se è realmente Iddio che t'ha costituito «economo dei suoi misteri». E se è proprio Dio che t'ha messo in quest'ufficio, non perder mai di vista l'alto significato del tuo ministerio. Ricordati di due cose specialmente:

1°) Che tu non sei il servo di una chiesa particolare, ma un servo di Cristo a pro della Chiesa universale.

2°) Che siccome il tuo scopo è chiaro: «Annunziare nella sua pienezza la parola di Dio», tutto il resto dev'esser subordinato a cotesto scopo.

3. Ma non siamo forse tutti quanti degli economi nella gran casa di Dio? Ogni mortale ha ricevuto dall'Eterno qualche dono; e son cotesti i doni che, da buoni economi, dobbiamo distribuire al resto della famiglia. Ingegno, esperienza, cuore, simpatia, danaro, sono tanti doni ch'Egli ha in larga misura dispensati, e che niuno ha il diritto di godersi egoisticamente. «In dono li avete ricevuti, in dono dateli!» dice il Maestro Matteo 10:8; e l'apostolo: «Da buoni economi della svariata grazia di Dio, ognun di voi ponga al servizio degli altri il dono che ha ricevuto 1Pietro 4:10; Colossesi 1:25.

28 9. Il ministerio evangelico: Colossesi 1:28.

È Cristo che noi proclamiamo, ammonendo ciascun uomo e ciascun uomo ammaestrando con ogni sapienza, affinchè ciascun uomo presentiamo dinanzi a Dio perfetto in Cristo.

L'oggetto del ministerio evangelico è Cristo, dice l'apostolo; ed è Cristo che noi, vale a dire, io, Timoteo. Epafra e quanti come noi son dal Signore chiamati a codest'ufficio, proclamiamo.

La parola καταγγελλω Atti 13:5; 15:36; 1Corinzi 9:14; Filippesi 1:17 che rendiamo per «proclamare», significa «far noto», «annunziare», «promulgare». Il ministerio evangelico non è dunque un «sacerdozio», ma è un «annunzio», un'«ambasciata», come dice altrove il nostro apostolo 2Corinzi 5:20. Tutti quanti gli scrittori del Nuovo T. sono d'accordo nell'attestare che il ministerio evangelico non ha nulla di comune col sacerdozio dell'antico Patto. Per niun lato il ministerio evangelico si presta al nesso col sacerdozio levitico. Non per la idea di mediazione 1Timoteo 2:5; non per l'idea del «sacrificio» e dei «sacrificatori» Ebrei 7:27; 9:12; 10:10; Romani 6:10; Ebrei 7:21,23-24; non per l'idea del privilegio che il sommo sacerdote avea d'entrare nel luogo santissimo Levitico 16; Efesini 2:18-19; 1Pietro 2:9-10. Il sacerdozio antico muore ai piedi della croce, ove Cristo, sacerdote e vittima ad un tempo, s'è immolato per noi; il ministerio evangelico esce come una nuova creazione dal seno dell'alba di Pasqua, allorchè il grido: Egli vive!... parte per la prima volta dal cuore degli discepoli. In quel grido è la sintesi della loro missione; e dei tesori nascosti in quel grido, gli apostoli si considereranno come debitori ai giudei, ai greci, ai barbari, ai dotti, agli ignoranti Romani 1:14,16. Il ministerio evangelico consiste in un annunzio; e quest'annunzio ha un oggetto preciso: Cristo.

Non dunque fisime gnostiche, non pratiche ascetiche, non larve giudaiche, ma una persona vivente: Cristo, che profeta, ci guida col suo spirito «in tutta la verità» Giovanni 16:13; che sacerdote, compiuto il sacrificio espiatorio Ebrei 7:25-27, «intercede del continuo per noi presso il Padre» Romani 8:34; 1Giovanni 2:1; e che re, tutte le cose sapientemente governa e conduce al compimento dei suoi eterni disegni Apocalisse 17:14; 19:16; 1Corinzi 15:24-25. Ecco il solo e legittimo oggetto del ministerio evangelico. Il modo con cui questo ministerio dev'essere esercitato, l'apostolo definisce con quattro espressioni: «Ammonendo», «ammaestrando», «ciascun uomo», «con ogni sapienza».

L'ammonire ( νουθετουντες da νους e τιθημι uguale a εν τω νω τιθημι «an das Herz legen» «porre qualcosa sul cuore di qualcuno») contiene l'idea di esortazione o di riprensione, rivolta alla mente, al cuore, alla coscienza di qualcuno. Secondo questa prima idea, quindi, il ministerio evangelico dev'essere un ministerio di «riprensione»; un ministerio inteso a scuotere le menti travolte e le coscienze corrotte Marco 6:18; Atti 8:20,22; 13:10; e per analogia 2Samuele 12:7.

L'ammaestrando ( διδασκω) pone in rilievo il fatto che il ministerio evangelico, non dev'essere soltanto ministerio di «riprensione», ma anche «didattico»; vale a dire, un ministerio che ammaestra, che insegna, che mira allo sviluppo intellettuale, morale e spirituale di coloro a cui è diretto. Se esaminiamo con un po' d'attenzione le lettere del Nuovo T. e i discorsi apostolici degli Atti, troveremo subito chiari e distinti questi due elementi del ministerio cristiano: dottrina ed appello: insegnamento ed esortazione; il che è quanto dire: mente e cuore: intelletto e coscienza. Il ciascun uomo, che nel breve giro di poche frasi torna per ben tre volte, è inteso a scolpire l'idea che il ministerio evangelico è un ministerio eminentemente «individuale». EGLI non è cosa delle moltitudini; è cosa degli individui; egli s'indirizza senza dubbio alla folla; ma tra la folla cerca l'individuo; e mentre dinanzi agli occhi di codesto individuo spiega i misteri dell'amore di Gesù crocifisso e la gloria del Cristo risuscitato, gli susurra all'orecchio la solenne parola: «Ravvediti e credi!» perchè «chi crede nel Figliuolo ha vita eterna, ma chi non crede nel Figliuolo non vedrà la vita» Marco 1:15; Giovanni 3:36.

Col con ogni sapienza, forse l'apostolo volle tornare su quel pensiero già espresso più sopra, col quale assicurava i suoi lettori che gli orizzonti di colui che cerca l'epignosi della volontà di Dio sono molto più vasti degli orizzonti gnostici; ma, più probabilmente, sia perchè l'apostolo non ha l'abitudine di ripetersi senza scopo e sia perchè quest'altra spiegazione è più in armonia con l'ordine d'idee che adesso lo preoccupa, egli vuol dire che il ministerio evangelico non soltanto deve riprendere, istruire ed aver per obiettivo l'individuo, ma deve anch'essere un ministerio «savio ed intelligente»; non un ministerio, cioè che applichi un medesimo metodo a tutti, ma che studi il carattere d'ogni individuo ed applichi a codesto carattere il metodo che gli è più confacente. Bella cosa è senza dubbio un ministerio zelante: ma se questo zelo è «senza conoscenza» Romani 10:2, senza giudizio e senza tatto, il ministerio di cui è l'anima, sarà più di scapito che di guadagno alla causa che serve. Lo scopo che il ministerio evangelico deve avere in vista, è questo, dice l'apostolo: presentare ciascun uomo perfetto in Cristo. Presentare dove, ed a chi? La parola παριστημι Matteo 26:53; Atti 1:10; 4:10; 27:23 e simili significa «porre a lato, accosto», e poi anche «presento» «metto dinanzi agli occhi». L'apostolo non esclude certamente l'idea che lo scopo del ministerio evangelico sia di presentare al mondo quel vero convertito che è la dimostrazione più eloquente della potenza trasformatrice del Vangelo; ma qui, egli va più oltre col pensiero; ed il suo sguardo si spinge fino a quell'ora solenne, in cui egli stesso ed i suoi colleghi presenteranno dinanzi al gran tribunale 2Corinzi 5:10 uno ad uno tutti quelli che hanno udito l'Evangelo da loro. E la nobile ambizione di Paolo è di poterveli presentare tutti quanti perfetti in Cristo. Perfetti: Ma è egli mai possibile di raggiungere la perfezione sulla terra? No, se si tratta di perfezione assoluta; sì, se si tratta di perfezione relativa. No, se intendiamo il precetto di Cristo «siate perfetti com'è perfetto il Padre vostro che è negli cieli» Matteo 5:48, nel senso che dobbiamo diventar quaggiù perfetti com'è perfetto Iddio; ma sì, se intendiamo che la perfezione di Dio è l'ideale, e che ognuno quaggiù è chiamato ad evolvere la propria vita morale fino a quel grado di maturità di cui ella è capace. Una mente sana, una intelligenza bene equilibrata, un'armonia costante fra il dire ed il fare, un'anima bella e generosa fanno dell'uomo quell'essere che Paolo chiama «perfetto» 1Corinzi 2:6; 13:10; Matteo 19:21; Filippesi 3:15; Giacomo 1:4. Ma chi renderà sane le menti divenute così guaste e corrotte? Chi ristabilirà l'equilibrio nelle stravolte intelligenze? Chi ci darà sul serio questa ormai mitica armonia fra il dire ed il fare? Chi ridonerà all'anima quei sentimenti di generosità che il demone dell'egoismo ha in lei quasi del tutto soffocati?

Cristo, risponde l'apostolo; non rifiutate la mano ch'egli vi stende; non respingete l'amicizia, ch'egli vi offre; seguite l'esempio ch'ei vi ha, lasciato, e siate anche voi di quelli che un giorno presenteremo a Dio viventi e perfetti!

Riflessioni

1. Tutta quanta la cristianità è d'accordo sul fatto che Cristo è il solo e legittimo oggetto della nostra «testimonianza»; e nondimeno, quanta diversità nel modo d'intendere codest'oggetto! A., per esempio, ha fama d'esser sul serio un predicatore di Cristo. Ma come lo predica egli? EGLI s'è fatto una filza di passi che si riferiscono alla passione ed alla morte del Salvatore, e quei passi tornano e ritornano nelle sue prediche, con una leggerezza ed una superficialità che sgomentano. E come si fa a non sentirsi stringere il cuore quando A., senz'alcun riguardo nè al testo, nè al contesto, nè allo spirito del libro a cui il testo appartiene, vi lardella, vi rimpinza, vi tempesta le sue prediche di passi che a voi son costati delle giornate e delle serate intere di meditazione e di studio? B. appartiene invece al numero di quelli che non possono disgiungere la spiritualità del culto cristiano dalla grandezza e dal fasto della sua manifestazione esterna. Un culto senza cattedrale, senza gravi note d'organo che si perdano fra i misteri delle stupende navate, non è un culto, per loro. E chi oserebbe dire che abbiano torto? Il guaio non sta in questo, ma sta nel fatto che, mentre son così preoccupati della forma, succede, nell'ordine delle loro cose spirituali, una strana metamorfosi, e finiscono col rimanere, senza volerlo, s'intende e quasi senza accorgersene, vittime d'un pericolosissimo scambio di termini. Il nome Cristo, che prima si leggeva nitido e distinto sul loro orizzonte, comincia poco a poco a sbiadire, a scomporsi, a dileguarsi. Poi, principia un nuovo lavorìo di ricomposizione; ed il nome, adagio adagio, riappare; prima, incerto; poi, più chiaro; finalmente, perfetto. Loro, che giudicano così all'ingrosso, contano le lettere... e sta bene; il conto torna; sono sei come prima. Chi però guarda più attentamente, s'accorge che il nome non è più lo stesso; che è radicalmente mutato e che dice: Chiesa. Lo scambio del termine porta necessariamente con sè lo scambio d'oggetto della testimonianza cristiana; e la formula evangelica: Extra Christum nulla salus Giovanni 6:47; 14:6; Atti 4:12, diventa la formula romana: Extra Ecclesiam nulla salus. Non la Chiesa, esclama Paolo, ma Cristo è l'unico oggetto della nostra testimonianza: Cristo, la speranza della nostra gloria e della gloria del mondo.

2. Qual'altra, fra le vocazioni terrestri, ha uno scopo più nobile di quello che ha il ministerio cristiano? A codesto scopo, quindi, converga tutta la nostra attività; e mentre cerchiamo di farci giungere gli altri, vediamo prima di tutto di arrivarci noi. Ogni individuo è capace di un certo grado di maturità morale, tanto dal punto di vista della conoscenza, quanto da quello della condotta. A codesto grado egli deve sforzarsi d'arrivare. A., per esempio, è forte nella conoscenza, ma debole nella condotta; usi dunque tutta la energia e tutto lo zelo di cui può disporre, a migliorare la propria condotta. B., invece, è forte nella condotta, ma debole nella conoscenza; studi dunque, mediti e preghi, onde sempre più vivida, e ricca gli si faccia la luce nell'intelletto. Che stupenda testimonianza dà un individuo, od un nucleo d'individui, che abbiano raggiunto il grado di maturità di cui Dio li avea fatti capaci! Essi costituiscono uno di quei fatti morali che s'impongono all'attenzione del mondo; che esigono dalla gente seria una qualche spiegazione; e che altra spiegazione non hanno, fuorchè nella potenza di quell'amore che l'Eterno ha concretato in Cristo.

29 10. Il ministerio evangelico nelle sue lotte e nelle sue aspirazioni: Colossesi 1:29-2:3.

È a questo che anch'io m'affatico, lottando con quella energia di Cristo che agisce in me potentemente. Poichè desidero che sappiate qual'ardua lotta io combatta per voi e per quelli di Laodicea e per quanti non mi conoscono personalmente; affinché, stretti insieme per amore, siano confortati nei loro cuori e conseguano tutta la dovizia della piena certezza intellettuale, per conoscere il mistero di Dio: Cristo, cioè, nel quale tutti i tesori della sapienza e della scienza stanno nascosti.

Dopo averci parlato del ministerio evangelico, l'apostolo ci presenta adesso il ministro, nelle sue lotte e nelle sue aspirazioni.

È a questo che anch'io m'affatico. A questo, vale a dire, a quel ministerio di cui ho già parlato.

Anch'io.

Se più sopra Colossesi 1:28 ha detto noi, includendo Timoteo ed Epafra, qui egli vuol uscire dal gruppo dei suoi compagni d'opera e vuole avvicinarsi solo ai lettori, per metterli a parte delle sue esperienze personali.

M'affatico.

Il ministerio non è dunque per Paolo una, «sine cura», non è cosa ch'egli faccia nei ritagli di tempo, ma è un lavoro che gli assorbe tutta quanta l'attività, che gli esaurisce tutte quante le forze, e che gli domanda il lento ma completo sacrificio della vita cf. 2Corinzi 11:27; 1Corinzi 15:10.

Lottando...

L'«affaticarsi» dell'apostolo non sta tutto in quella prodigiosa attività che conosciamo, ma sta anche in quell'immensa varietà di lotte ch'egli combattè nell'intimo del cuore e nel segreto dell'anima, e che qui sintetizza in una parola che sarei tentato di conservare anche in italiano nella sua forma originale: «È a questo che anch'io m'affatico, AGONIZZANDO cfr. 1Timoteo 4:10; 6:12; 2Timoteo 4:7 con quella energia di Cristo che agisce in me potentemente».

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