Commentario abbreviato:

Ebrei 2

1 Capitolo 2

Il dovere di aderire fermamente a Cristo e al suo vangelo Ebr 2:1-4

Le sue sofferenze non sono un'obiezione alla sua preminenza Ebr 2:5-9

Il motivo delle sue sofferenze e la loro utilità Ebr 2:10-13

Il fatto che Cristo abbia assunto la natura di uomo, e non quella di angelo, era necessario per il suo ufficio sacerdotale Ebr 2:14-18

Versetti 1-4

Poiché Cristo si è dimostrato superiore agli angeli, questa dottrina viene applicata. La nostra mente e la nostra memoria sono come un vaso che perde, senza molta attenzione non trattengono ciò che vi viene versato. Ciò deriva dalla corruzione della nostra natura, dalle tentazioni, dalle preoccupazioni e dai piaceri del mondo. Peccare contro il Vangelo è trascurare questa grande salvezza; è disprezzare la grazia salvifica di Dio in Cristo, farne tesoro, non curarsene, non considerare né il valore della grazia del Vangelo, né la sua mancanza e il nostro stato di disfatta senza di essa. I giudizi del Signore sotto la dispensazione del Vangelo sono soprattutto spirituali, ma per questo sono ancora più da temere. Questo è un appello alla coscienza dei peccatori. Anche le negligenze parziali non sfuggono ai rimproveri; spesso portano le tenebre sulle anime che non rovinano definitivamente. L'esposizione del Vangelo è stata continuata e confermata da coloro che hanno ascoltato Cristo, dagli evangelisti e dagli apostoli, che erano testimoni di ciò che Gesù Cristo aveva iniziato a fare e a insegnare, e dai doni dello Spirito Santo, qualificati per l'opera a cui erano stati chiamati. E tutto questo secondo la volontà di Dio. Era volontà di Dio che noi avessimo un terreno sicuro per la nostra fede e un solido fondamento per la nostra speranza nel ricevere il Vangelo. Teniamo a mente questa cosa necessaria e osserviamo le Sacre Scritture, scritte da coloro che hanno ascoltato le parole del nostro grazioso Signore e sono stati ispirati dal suo Spirito; allora saremo benedetti con la parte buona che non può essere tolta.

5 Versetti 5-9

Né lo stato in cui si trova attualmente la Chiesa, né quello più completamente restaurato, quando il principe di questo mondo sarà cacciato e i regni della terra diventeranno il regno di Cristo, è lasciato al governo degli angeli: Cristo prenderà il suo grande potere e regnerà. E qual è la causa scatenante di tutta la bontà che Dio mostra agli uomini nel dare Cristo per loro e a loro? È la grazia di Dio. Come ricompensa dell'umiliazione di Cristo nel subire la morte, egli ha un dominio illimitato su tutte le cose; così questa antica scrittura si è adempiuta in lui. Così Dio ha fatto per noi cose meravigliose nella creazione e nella provvidenza, ma per queste abbiamo fatto i più bassi ritorni.

10 Versetti 10-13

Qualunque cosa l'orgoglioso, il carnale e l'incredulo possano immaginare o obiettare, la mente spirituale vedrà una gloria particolare nella croce di Cristo e sarà soddisfatta che sia stato Lui, che in ogni cosa mostra le proprie perfezioni nel portare molti figli alla gloria, a rendere perfetto l'Autore della loro salvezza attraverso le sofferenze. La sua via alla corona è stata la croce, e così deve essere quella del suo popolo. Cristo santifica; ha acquistato e inviato lo Spirito santificante: lo Spirito santifica come lo Spirito di Cristo. I veri credenti sono santificati, dotati di principi e poteri santi, destinati a usi e scopi elevati e sacri. Cristo e i credenti sono tutti di un unico Padre celeste, che è Dio. Essi sono messi in relazione con Cristo. Ma le parole "non si vergogna di chiamarli fratelli" esprimono l'alta superiorità di Cristo rispetto alla natura umana. Ciò è dimostrato da tre testi della Scrittura. Sal 22:22; 18:2; Isa 8:18.

14 Versetti 14-18

Gli angeli caddero e rimasero senza speranza o aiuto. Cristo non ha mai avuto l'intenzione di essere il Salvatore degli angeli caduti, quindi non ha preso la loro natura; e la natura degli angeli non poteva essere un sacrificio espiatorio per il peccato dell'uomo. Ecco un prezzo pagato, sufficiente per tutti e adatto a tutti, perché era nella nostra natura. Qui è apparso il meraviglioso amore di Dio che, pur sapendo cosa doveva soffrire nella nostra natura e come doveva morire in essa, ha prontamente preso su di sé. E questa espiazione ha reso possibile la liberazione del suo popolo dalla schiavitù di Satana e il perdono dei suoi peccati attraverso la fede. Coloro che temono la morte e si sforzano di avere la meglio sui loro terrori, non cerchino più di superarli o di soffocarli, non diventino più imprudenti o malvagi per la disperazione. Non si aspettino aiuto dal mondo o da espedienti umani, ma cerchino il perdono, la pace, la grazia e la viva speranza del cielo, attraverso la fede in Colui che è morto e risorto, per potersi così elevare al di sopra della paura della morte. Il ricordo dei propri dolori e delle proprie tentazioni rende Cristo attento alle prove del suo popolo e pronto ad aiutarlo. Egli è pronto e disposto a soccorrere coloro che sono tentati e lo cercano. Si è fatto uomo ed è stato tentato, per essere in ogni modo qualificato a soccorrere il suo popolo, visto che egli stesso è passato attraverso le stesse tentazioni, ma è rimasto perfettamente libero dal peccato. Allora gli afflitti e i tentati non si scoraggino e non cedano a Satana, come se le tentazioni rendessero sbagliato il fatto di rivolgersi al Signore in preghiera. Non c'è anima che sia mai perita sotto la tentazione che abbia gridato al Signore per il reale allarme del suo pericolo, con fede e aspettativa di sollievo. Questo è il nostro dovere quando siamo sorpresi dalle tentazioni e vogliamo fermare il loro progresso, che è la nostra saggezza.

Commentario del Nuovo Testamento:

Ebrei 2

1 Sezione II. Ebrei 2:1-4. NECESSITÀ DI ATTENERSI ALLA PAROLA DEL FIGLIO.

L'autore ha vergata appena la prima pagina della sua lettera che già si sente spinto a trarre dalla esposizione dottrinale fatta, una conseguenza pratica da cui traspare, ad un tempo, il pericolo al quale ei vede esposti i lettori ed il vivo desiderio ch'egli ha del loro bene spirituale.

Se non vogliono perdere la salvazione di cui hanno udito l'annunzio, essi devono attenersi con tanto maggior costanza all'Evangelo della salvazione, che il Rivelatore di esso è, senza paragone. superiore agli organi della rivelazione legale, e che la sua parola e giunta fino a loro con tutte le garanzie desiderabili di credibilità

Perciò, bisogna che viemaggiormente noi ci atteniamo alle cose udite, che talora non siamo portati via [dalla corrente].

Il perciò viene a dire: Per la superiorità del Figlio sugli angeli (e per conseguenza anche sui profeti) dimostrata nella sezione precedente. La grandezza infinita del Rivelatore è solenne dimostrazione della divina origine del suo messaggio, del carattere definitivo e della suprema importanza di esso. Ma di fronte alla parola del Figlio, cresce altresì la responsabilità di coloro che hanno avuto il privilegio di udirla. Se, come Gerusalemme, non sanno riconoscere il tempo della lor visitazione e non si curano della salvezza offerta, non resta loro alcuna possibilità di sfuggire al giudicio divino. Bisogna accenna a una necessità, ad un assoluto obbligo morale, che incombe a tutti coloro che hanno udito l'Evangelo: quindi è che l'autore unendosi ai lettori, dice noi. Le cose udite sono le verità salutari del Vangelo a loro predicato da coloro che l'avevano udito dalle labbra di Gesù. A queste devono, con la massima fermezza e costanza, rimanere attaccati se non vogliono andare incontro a sicuro naufragio. II verbo qui usato ( παραρυωμεν) non s'incontra altrove nel N.T. Esso significa letteralmente scorrere lungo, ovvero oltre, e si dice di un fiume le cui acque, senza posa, si muovono verso il mare per sparirvi. L'immagine che sta dinanzi all'autore sarebbe dunque quella di una nave che invece di stare attaccata all'ormeggio, si lascia trasportare dalla corrente lungi dal porto ov'era la sua salvezza e finisce collo sparire nei gorghi. Così gli Ebrei, qualora si lascino trascinare dalle correnti della mondanità, della tiepidezza spirituale, dell'incredulità, ad allontanarsi dal Vangelo, finiranno col naufragare nella perdizione. Va notato che anche in Ebrei 6:19 l'autore si serve di una similitudine marinaresca paragonando la speranza cristiana ad un'àncora cui dobbiamo, come la nave sbattuta dalle onde, rimanere saldamente attaccati. La vers. Diod che talora non isfuggiamo è erronea. Piuttosto si tratta di non lasciarsi sfuggire, per indifferenza, per trascuranza, la salvezza offerta.

2 Poiché, se la parola proclamata a mezzo d'angeli e stata ferma ed ogni trasgressione e disubbidienza ricevette giusta retribuzione, come scamperemo noi se avremo negletta una cotanta salvezza?

La parola proclamata a mezzo d'angeli è la legge, specialmente la legge del Sinai. L'A.T. non afferma esplicitamente l'intervento degli angeli nella promulgazione della legge dal Sinai; ma i Giudei vedevano nei fenomeni grandiosi che prepararono ed accompagnarono la promulgazione delle dieci parole, l'azione degli angeli. Il Pentateuco parla, in varii luoghi, dell'angelo del Signore che dovea guidare e proteggere il popolo Esodo 14:19; 23:20; 32:34; Numeri 20:16. La versione greca del Deuteronomio 33:2 ove si ricorda la teofania del Sinai porta: «Avendo alla sua destra degli angeli con se» e quella parlando delle migliaia di vigorosi che formano la cavalleria di Dio, aggiunge: «il Signore è in mezzo a loro, nel Sinai, nel luogo santo». Nulla di strano, adunque, se fra i Giudei, il ministerio degli angeli era associato alla promulgazione della Legge. Stefano nella sua apologia Atti 7:53 dirà: «Voi che riceveste la legge, facendone gli angeli le pubblicazioni...», e Paolo Galati 3:19 «La legge è stata aggiunta... essendo pubblicata per mezzo di angeli, per mano d'un mediatore». Or la legge antica, pur non avendo avuto per promulgatori che degli angeli, è stata ferma, cioè è stata mantenuta e fatta rispettare come ordine divino da non prendersi a gabbo, tantochè ogni trasgressione positiva od anche ogni disubbidienza per via d'imperfetta osservanza o di omissione, ricevette, come mostra ampiamente la storia israelitica, la sua giusta punizione. Ciò posto, quale dovrà essere la sorte di coloro che non si curano della Rivelazione definitiva la cui suprema importanza è pur così evidente? Sia che i lettori guardino al suo contenuto, sia che guardino al suo promulgatore, sia che guardino alla piena certezza dell'annunzio a loro fattone, essi non potranno fare a meno di riconoscere la tremenda responsabilità cui va incontro chi la sprezza. Se i trasgressori dell'antica legge non isfuggirono alla punizione divina, come scamperemo noi alla condannazione, se ci rendiam colpevoli di un'offesa tanto più grave della loro?

3 La parola degli angeli proclamava delle leggi; la parola del Vangelo annunzia una grande salvezza, decretata ab eterno da Dio, compiuta nel tempo dal Figliuolo di Dio umanato, salvezza non terrena e passeggiera, ma che trae l'uomo dalla perdizione e lo porta fino alla perfezione celeste. Disubbidire a un ordine divino è grave, ma trattare con noncuranza sprezzante la salvezza offerta dall'amor di Dio e procurata dalla passione di Gesù, è più grave assai

Promulgatori della legge erano stati degli angeli e degli uomini; promulgatore primo della salvazione e il Signore stesso, il Figlio di Dio

La quale, salvezza, dopo essere stata da principio annunziata per mezzo; del Signore, ci è stata confermata da coloro che l'avevano udito, unendo Iddio alla loro propria testimonianza con dei pegni e dei prodigi e delle svariate potenti operazioni e distribuzioni di Spirito Santo, secondo la sua volontà.

In Ebrei 3:1 l'autore chiamerà Gesù «l'apostolo» della nostra professione; e infatti egli è stato il primo banditore dell'Evangelo della salvezza. A mostrare qui la divina grandezza ed autorità del promulgatore della grazia, lo chiama il Signore come Ebrei 7:14; 13:20. La parola di Cristo è la fonte prima del Vangelo e ne contiene tutte le dottrine essenziali. Gli Apostoli, sotto la guida dello Spirito mandato dal Signore, hanno potuto svolgere ed applicare e difendere a seconda delle circostanze la verità evangelica, ma sono restati sempre «testimoni» di Cristo. «Lo Spirito, avea detto Gesù, prenderà del mio e ve lo annunzierà». «Noi, dice Paolo, abbiamo la mente di Cristo». L'autore allude qui, di passata, all'insegnamento pubblico di Gesù di cui gli Evangeli ci dànno un sunto. Altrove nell'Epistola ricorderà la umanità reale, la discendenza dalla tribù di Giuda, le tentazioni e prove, le sofferenze, le persecuzioni, l'agonia, la morte, la risurrezione e l'ascensione di Gesù, confermando indirettamente il contenuto storico degli Evangeli. Nulla però indica ch'egli abbia avuto conoscenza dei Vangeli Sinottici.

I lettori e l'autore dell'epistola non erano stati discepoli immediati di Gesù, ma la salvezza da Lui annunziata era stata confermata presso a loro, o per loro, da quelli che l'avevano udita predicare dal Signore. Dice lett. è stata resa salda per noi ch'è quanto dire: ci è stata riferita in modo fedele e sicuro così da non lasciar in noi il minimo dubbio sul suo contenuto e sulla sua autenticità. Coloro che li hanno ammaestrati sono stati testimoni oculari ed auricolari di Cristo; la loro vita santa e la loro morte serena sono presenti tuttora alla mente dei lettori Ebrei 13:7. Non si tratta dunque di un incerto si dice, di una leggenda passata per le mille bocche della tradizione, ma di una testimonianza recata loro direttamente da apostoli, o per lo meno da uditori immediati di Gesù e ch'essi d'altronde avevano avuto ogni agio di controllare. Si confr. quanto dice Luca delle sue accurate ricerche affinchè Teofilo riconosca la certezza delle cose che gli furono insegnate Luca 1:1-4 e quanto riferisce Paolo circa le prove della risurrezione di Cristo 1Corinzi 15:1-11. Già dicemmo, come questo collocarsi che fa l'autore fra i discepoli degli uditori di Gesù, non si concilii coll'ipotesi che vede in Paolo lo scrittore dell'Epistola. Cf. Galati 1:12 e seguenti.

4 Era sicura la testimonianza degli uomini che avevano annunziato agli Ebrei l'Evangelo udito da Gesù. Tuttavia, a dileguare ogni riluttanza nata da pregiudizii, a vincere ogni resistenza nei cuori onesti, Dio aveva aggiunto alla testimonianza umana dei suoi ministri, la sua propria ( συν-επι-μαρτυρουντος=associando e aggiungendo la sua testimonianza), a confermare la verità del messaggio che recavano, con miracoli di vario genere. Sono chiamati segni, perchè intesi a raffigurare l'opera spirituale della grazia, prodigii perchè colpiscono col loro carattere straordinario, soprannaturale, potenti operazioni ( δυναμεις) perchè prodotti da una forza manifestamente superiore a quella dell'uomo. Le distribuzioni dello Spirito Santo sono i doni o carismi che nei primi tempi erano concessi ai credenti e che attestavano la presenza in loro dello Spirito di Dio. E adoperata l'espressione distribuzioni, perchè i doni erano molti e diversi, ed erano concessi a molte persone e in misura diversa secondo la volontà di Colui ch'è solo savio e non opera a caso. Cfr. per i doni 1Corinzi 12-14. Tutte le manifestazioni soprannaturali che avevano accompagnato la predicazione della salvezza, erano state per gli Ebrei come il suggello posto da Dio stesso su quella predicazione. L'autore allude a fatti ben noti a lui ed ai suoi lettori, e conferma così, di passata, quanto ci narra Luca nei Fatti, allorchè riferisce dei miracoli o delle manifestazioni straordinarie dello Spirito.

Ammaestramenti

1. I motivi che abbiamo di ricevere con fede e di ritenere con fermezza e perseveranza l'Evangelo sono molti e potenti

a. il contenuto d'esso e una grande salvezza. Grande perchè forma il centro del piano eterno di Dio che n'è l'Autore supremo. Grande perchè conseguita mediante l'umiliazione e la morte del Cristo. Grande per le conseguenze infinite ch'ella ha per chi l'accetta ed anche per chi la respinge o la trascura.

b. Esso ha avuto per primo araldo il Signore Gesù stesso, il Figlio di Dio ch'è infinitamente superiore ai profeti ed agli angeli (cfr. Ebrei 12:24-25).

c. Esso e stato di poi predicato al mondo e consegnato in iscritto dai testimoni oculari ed auricolari della vita e dell'insegnamento di Cristo o dai loro discepoli immediata, ed i testimoni hanno suggellata la verità della lor predicazione con una vita santa e spesso col martirio.

d. Esso è stato autenticato quale messaggio divino presso le prime generazioni di cristiani da manifestazioni sovrannaturali svariate e lo è presso a noi in modo altrettanto evidente dai frutti di vita spirituale e morale prodotti nel corso di molti secoli e presso ai popoli più diversi.

2. Nessuna rivelazione di Dio all'uomo è vana. L'aver soffocata la conoscenza che di Dio potevano avere dalle opere della creazione e dalla lor coscienza, trasse sui pagani le tenebre dell'idolatria e della più sfrenata corruzione. L'aver trasgredita la legge rivelata, trasse sugli Israeliti, spaventevoli giudicii di Dio. Cfr Romani 1-2.

Più sono manifesti la divina origine, il contenuto grazioso e la certezza dell'Evangelo, e più è grande la responsabilità di chi l'ode. Cfr. Ebrei 12:18-29. Dal modo in cui l'uomo accoglie la grande salvezza offertagli dipendono la sua eterna gloria o la sua ruina finale, poiché altro mezzo di scampo non esiste né sarà più offerto al peccatore. E qual mezzo ha l'uomo di sottrarsi al giudicio di Dio?

3. L'indifferenza che non si degna neanche di prestare ascolto, di leggere, di esaminare con attenzione e rettitudine di cuore l'Evangelo, è peccato che offende Dio quanto l'aperta ribellione. C'è in essa il disprezzo delle cose spirituali, in ispecie dell'amor di Dio. Perciò il non «attenersi alle cose udite», il trascurar la «grande salvezza», trae sui colpevoli un giudicio inesorabile. Se Dio ci ha parlato nel suo Figlio e se lo Spirito ci fa certi della verità e della potenza del Vangelo, prestiamo viepiù attenzione alle cose udite per attenervici e la mancanza di serietà e di fervore, il non dare a Dio ed alla religione il primo posto ed il meglio delle nostre energie, sono la radice della debolezza malaticcia della vita cristiana» (A. Murray).

4. Le correnti che trascinavano i primi lettori dell'Epistola lungi dalla grazia di Cristo loro annunziata erano il rilassamento spirituale che aveva intiepidito il loro zelo primiero, che avea resi lenti e scarsi i loro progressi nella conoscenza della verità e li facea quasi rimpiangere le magnificenze dei riti del tempio; poi una meno viva avversione al male ed un più grande attaccamento al mondo.

«Ci sono anche oggi delle correnti di opinioni, di sentimenti e di attività, correnti di irreligione e di mondanità le quali se non vi resistiamo ci trascinano al mare della morte spirituale» (Bruce A. B.).

La corrente cui le moltitudini si abbandonano facilmente di un ritualismo tradizionale che parla ai sensi e non allo spirito, l'amore ai beni materiali, agli onori ed ai piaceri del mondo ne traggono sempre molti alla rovina.

Il gran rimedio per mantenere gagliarda la vita religiosa, o per ravvivare la fede languente insidiata da errori e da tendenze irreligiose, sarà sempre quello di tornare e di attenersi alla parola di Cristo trasmessaci fedelmente dai suoi apostoli e da Dio attestata mediante i frutti ch'ella ha prodotti.

5 Sezione III. Ebrei 2:5-18. CRISTO DUCE DELLA SALVAZIONE DEGLI UOMINI MEDIANTE I SUOI PATIMENTI.

Dopo l'esortazione contenuta in Ebrei 2:1-4, l'autore ritorna alla superiorità di Cristo sugli angeli. Nel cap. I egli l'avea fondata principalmente sulla natura divina di Cristo qual Figlio, ed Agente di Dio nella creazione e conservazione del mondo, sulla sua dignità di Re stabilito da Dio sull'universo; qui egli la fonderà principalmente sul lato umano della persona del Cristo, su quel ch'egli è stato ed è per noi come Figliuol dell'uomo. Là Cristo era superiore agli angeli nella sua qualità di Rappresentante di Dio nelle sue relazioni col mondo; qui egli è superiore agli angeli nella sua qualità di Rappresentante dell'umanità nelle sue relazioni con Dio. Sono due aspetti della gloria del Mediatore del Nuovo Patto, il cui nome è Immanuele: «Dio con noi». Ma non per nulla l'autore. presenta Cristo ai suoi lettori come il Duce della salvazione che, attraverso i patimenti, riconduce l'umanità ai suoi alti destini. Egli ben sa quanto ripugni al pregiudizio giudaico, l'idea di un Messia sottoposto all'infermità umana e inchiodato sulla croce; perciò si studia di rimuovere lo scandalo dalle menti col mostrare come fosse degno di Dio e necessario che il Duce del popolo da salvare fosse in ogni cosa simile ai suoi fratelli e gustasse anche la morte per loro.

Perciocchè, non è agli angeli ch'egli ha sottoposto il mondo avvenire di cui parliamo.

Il perciocchè connette l'esposizione che l'autore sta per fare di un nuovo aspetto, della superiorità di Cristo, con l'esortazione ad attenersi fermamente alla parola della grande Salvazione. L'esser Cristo il Capo della umanità che ha da possedere il mondo avvenire costituisce un motivo di più per attenersi alla di lui parola. Il mondo avvenire è il nuovo ordine di cose che ha da risultare dalla salvazione operata da Cristo. L'espressione risponde a quella ebraica haholam habbâ: il secolo a venire che troviamo in Ebrei 6:5. Cotesto mondo nuovo della salvazione è stato inaugurato dalla venuta di Cristo sulla terra del peccato, ma non avrà raggiunta la sua perfezione che col ritorno glorioso del Signore. Cristo lo chiama "il regno di Dio" o 'il regno dei cieli'». S. Pietro 2Pietro 3 «i nuovi cieli e la nuova terra ove la giustizia abita». Nella nostra Epistola l'autore parlerà più oltre della «città avvenire» «che ha i fondamenti e di cui Dio stesso è l'architetto ed il fondatore», del «regno che non può esser smosso», della «Gerusalemme celeste», del «riposo sabbatico» riservato al popolo di Dio. Sotto forme diverse, ritroviamo sempre il concetto, abbozzato nei profeti, di un mondo rinnovato, da cui sarà escluso il peccato colle sue tristi conseguenze, ed in cui sarà definitivamente raggiunto l'ideale umano. Questo mondo avvenire di cui parla l'autore nell'Epistola e di cui parlavano volentieri i cristiani, non è stato da Dio posto sotto alla dominazione degli angeli come lo è in qualche misura il mondo presente. Chi è destinato ad esserne il re è l'uomo, ma l'uomo rinnovato, ricondotto all'altezza spirituale cui Dio l'avea destinato. La vocazione dell'uomo, l'autore la trova delineata nel Salmi 8 di cui riporta i versetti Salmi 8:5-7 secondo la Settanta.

6 Anzi, qualcuno ha resa in un posto questa esplicita testimonianza: «Che cosa è l'uomo che tu abbia di lui memoria, od il figliuol dell'uomo che tu lo visiti? Tu l'hai fatto di poco inferiore agli angeli, Tu l'hai coronato di gloria e d'onore, Tu l'hai posto ogni cosa sotto ai suoi piedi».

Il qualcuno, secondo la soprascritta del Salmi 8, è Davide, il quale celebra in quell'inno la gloria di Geova come si vede su tutta la terra, e come appare specialmente dal fatto ch'egli sceglie le cose in apparenza più deboli, per farne degli strumenti nell'adempimento dei suoi alti disegni. Dai fanciulli trae la sua lode; e l'uomo così insignificante di fronte all'immensità dei cieli, egli ne prende cura, anzi lo fa signore di tutte le creature terrestri. Diodati tradusse: «Tu l'hai fatto per un poco di tempo minor degli angeli»; ed infatti il greco βραχυ τι si adopera più spesso ad indicare un tempo breve; ma può significare anche una piccola quantità, un poco (Es. Giovanni 6:7), ch'è appunto il senso dell'ebraico meath. Se fosse certo che l'autore dell'Ep. l'ha inteso in senso temporale, bisognerebbe dedurne ch'egli ha veduti accennati nel Salmo due stadii nella carriera umana e quindi in quella del Figliuol dell'uomo: uno di umiliazione e l'altro di gloria. Invece della parola angeli l'ebraico porta elohim per cui molti traducono: «Tu l'hai fatto di poco inferiore a Dio». Però siccome il nome elohim e dato talvolta ai magistrati od alle creature che stanno più vicino a Dio Salmi 82:1,6, non si può dire erronea la versione greca, seguita d'altronde dalla parafrasi caldaica e da celebri rabbini. L'uomo formato all'immagine di Dio, è di poco inferiore agli esseri più eccelsi, ed è stato coronato di gloria e d'onore quando fu stabilito re della creazione terrestre, come narra il primo cap. della Genesi e come spiega lo stesso Salmi 8.

8 Or questo dominio assoluto ed universale sulla terra, l'uomo lo ha egli mai esercitato? Manifestamente no; e la Genesi, col narrare il perverso uso fatto dall'uomo della sua libertà, ci addita la ragione per cui non ha potuto realizzare l'alta sua missione. Nel costatare lo stato attuale, l'autore non parla della causa da cui deriva, ma la indicherà più oltre esplicitamente.

Infatti, nel sottoporgli ogni cosa, non ha lasciato nulla che non gli fosse sottoposto. Al presente, però, noi non vediamo ancora che le cose gli siano sottoposte.

L'uomo è un re che non può farsi ubbidire dai suoi sudditi. Le forze della natura sembrano talvolta congiurate a suo danno, la terra gli produce spine e rovi e deve mangiare il suo pane col sudor della propria fronte. Egli è sottoposto a ogni sorta di disgrazie e d'infermità, la vita sua e breve e su di essa stende del continuo una cupa ombra la morte ch'egli teme. Ribelle a Dio egli stesso, vede a sè ribelle il mondo su cui dovea regnare santo e felice.

9 Ma quel Gesù ch'è stato fatto di poco inferiore agli angeli, ben lo vediamo «coronato di gloria e d'onore», a cagione della morte che sofferse, acciocchè per la, grazia di Dio gustasse la morte per ognuno.

La caduta dell'uomo non ha distrutto il proponimento di Dio. Alla gloria ed all'onore che Dio gli destinava, l'uomo dovrà giungere, ma per una via nuova aperta dalla grazia divina. Converrà che il Figlio di Dio venga in aiuto all'uomo caduto, ch'egli si umilii fino ad essere inferiore agli angeli assumendo la natura umana, che in questa natura dia l'esempio d'una vita perfetta, e soffra e gusti anche la morte per tutti. Per tal modo egli, qual nuovo Adamo, qual duce della salvazione, ritrarrà l'uomo dallo stato in cui l'ha piombato il peccato e lo condurrà fino alla gloria. E questa via Gesù, il Figliuol dell'uomo, l'ha seguita e la sua esaltazione alla destra del Padre è garanzia che là dove egli è, arriveranno coloro che lo seguono. Egli è le primizie della umanità redenta, la messe seguirà e l'ideale umano sarà raggiunto. La costruzione di Ebrei 2:9 è stata in varie guise piegata a sensi non accettabili. Es. «... vediamo coronato... quel Gesù che, a motivo delle sofferenze della morte, è stato di poco inferiore agli angeli...». Ma non è solamente nella morte che Gesù è sceso in istato inferiore a quello degli angeli, bensì col rivestire la natura umana, col divenire in ogni cosa simile agli uomini, fuorchè nel peccato. L'essersi in questa condizione abbassato fino alla morte ignominiosa della croce per salvare i suoi fratelli, è stata la causa morale della sua glorificazione. «Essendo in forma di Dio, dice Paolo in Filippesi 2, egli abbassò sè stesso... fino alla morte. Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato...» E in Apocalisse 5:12: «Degno è l'Agnello ch'è stato immolato di ricevere la potenza e la ricchezza... e l'onore e la gloria...» Per crucem ad lucem. Cfr Ebrei 12:2. La gloria e l'onore di cui vediamo incoronato Gesù è cosa che dura al presente, ch'è, per conseguenza, posteriore alla passione della morte e non può quindi consistere nei doni miracolosi ricevuti da Cristo durante il suo ministerio (Hoffmann) o nella onorevole vocazione al sacrificio per gli altri (Bruce). Ciò non sarebbe in armonia né col pensiero del Salmo, né con lo scopo cui mira qui l'autore. La glorificazione di Gesù principia colla risurrezione e si compie coll'ascensione e colla sessione alla destra del Padre.

Certo la congiunzione ὁπως (affinchè) offre una difficoltà, poiché sembrerebbe che Cristo sia stato coronato di gloria onde gustare la morte per tutti. Non si può eludere la difficoltà col parafrasare: «affinchè fosse riconosciuto ch'egli era morto per tutti, l'esaltazione di Cristo essendo la dimostrazione del valore universale del suo sacrificio» (Reuss). Ciò è vero, com'è vero pure che l'esaltazione di Cristo è la garanzia della validità dell'espiazione da lui compiuta. Ma ciò non prova che si possa spiegare a quel modo l'affinchè del testo. Invece di connettere l'affinchè direttamente col «coronato di gloria» ci pare più naturale di connetterlo coll'idea delle sofferenze. Egli è stato coronato a cagione della passione e questa via dolorosa gli era tracciata dal consiglio misericordioso di Dio, acciocchè colla sua morte potesse espiare la colpa di ciascun peccatore. Gustar la morte è espressione ebraica, che significa non già «assaggiare» soltanto, ma sperimentare personalmente tutta l'amarezza della morte. Dicendo per ognuno accentua il carattere ad un tempo individuale ed universale dell'opera di Gesù. La sorgente prima da cui quest'opera emana è la grazia di Dio. «Dio ha tanto amato il mondo ch'egli ha dato il suo unigenito Figliuolo...» «il tutto e da Dio che ci ha riconciliati a sè per mezzo di Cristo...» 2Corinzi 5:18. Una variante mentovata da alcuni Padri, ma non appoggiata dai MSC., reca χωρις θεου (senza Dio, invece di per grazia di Dio) e la si è spiegata come allusione all'«Elì Elì lamma sabactani» che proruppe dal cuore di Cristo crocifisso.

10 Un Messia «coronato di gloria e d'onore» rispondeva bene all'aspettazione israelitica; ma un Messia coronato per aver patita la morte, un Messia che «gusta la morte» sopra una croce, diventava per dei Giudei un oggetto di sprezzo, uno «scandalo» 1Corinzi 1:23. E da cotesto «scandalo della croce» i lettori della lettera non erano forse del tutto liberati nella loro mente, restando così esposti al pericolo di ritrarsi dal Vangelo per via del «vituperio» cui andavano incontro come cristiani (cf. Ebrei 13:13). Perciò l'autore, in Ebrei 2:10-18, si applica a mostrare la divina convenienza e necessità delle sofferenze e della morte di Cristo. Egli è costituito il Nuovo Adamo, il Duce della salvazione di una moltitudine di figli di Dio divenuti preda del peccato e della morte. Ma per condurre a termine una simile impresa ha da essere «reso compiuto», e questo non può farsi che mediante i patimenti

«Condurre a salvazione, osserva A. B. Davidson, non consiste in un semplice spiegamento di forza, ma è un processo morale. Coloro che hanno ad esser salvati sono figli di Dio ed il Salvatore è un santificatore. Anche questo «render compiuto» è opera morale che si prosegue sotto l'influenza dei fatti esterni della vita; e Gesù non è solo un individuo morale isolato, ma è il Duce della Salvazione ed in questa sua qualità dev'essere «reso compiuto». Di qui la necessità della sua incarnazione, e la divina convenienza delle prove e tentazioni onde fosse un sommo sacerdote misericordioso; di qui la necessità di scender nella morte per liberar gli schiavi della morte».

Ei si addiceva infatti a colui per cagione del quale e per mezzo del quale sono tutte le cose, trattandosi di condurre molti figli alla gloria, di render compiuto il duce della loro salvazione mediante i patimenti.

La ripugnanza dei Giudei ad accettare un Messia che fosse «uomo di dolori» si fondava in parte sulla falsa idea che non fosse degno di Dio il lasciare soffrire e morire il suo Cristo. Mostrando che il farlo passare pella scuola della sofferenza rispondeva, al contrario, al fine misericordioso di Dio, l'autore taglia dalle radici il pregiudizio giudaico Ei si addiceva, era cioè in armonia colla natura e col proponimento di Dio il procedere in questo modo. Le sofferenze di Cristo non sono, infatti, frutto del caso, o vittoria di avversarii; esse fanno parte del piano e sono volute dalla sapienza di Colui a cagione del quale e per mezzo del quale sono tutte le cose. Dio è la ragione suprema ed il fine ultimo di ogni cosa nella creazione, nella provvidenza e nella grazia. Tutto deve, in ultima analisi, volgere alla gloria di lui. Egli è altresì colui per mezzo del quale, per la cui volontà e potenza esse esistono. Le sofferenze di Cristo non sono avvenute contro la volontà e senza l'intervento di Dio; ma servono anch'esse alla gloria di lui, poiché sono il mezzo della salvazione di numerose creature di Dio ricondotte al loro alto destino. Invero, questa è l'opera cui Dio ha posto mano: Condurre alla gloria molti figli, cioè condurre al loro glorioso ideale una moltitudine infinita di uomini che sono creature morali, formate già all'immagine di Dio. A raggiunger un tal fine già ha destinato Gesù, costituendolo duce della salvazione di questi figli. Il termine αρχηγος, capitano, duce, principe, si applica in senso proprio, ai capi militari e civili ed in senso più lato significa capo d'una stirpe, antesignano e perfino autore. Cristo è chiamato Ebrei 12:2 il duce della fede, in Atti 3:15 il duce o principe della vita; mentre in Atti 5:31 è detto che «Dio lo ha innalzato [per essere] principe ( αρχηγος) e Salvatore». Qui egli è descritto come il duce che precede (cf. Ebrei 6:20) e guida a salvezza il grande esercito dei figli di Dio. Come anticamente Mosè e Giosuè, i successivi capi d'Israele, ritrassero il popolo dalla schiavitù d'Egitto, poi lo consecrarono a Dio al Sinai ed infine l'introdussero in Canaan, così fa Gesù, in senso spirituale, riguardo al popolo dei figli di Dio. Era quindi conforme alla sapienza di Dio il renderlo perfettamente atto ad un tanto compito, anche mediante i patimenti. Il verbo ( τελειοω) render compiuto torna varie volte nell'Epistola. Applicato agli adoratori dell'Eterno significa metterli pienamente in grado di accostarsi a Dio senza paura, certi che il loro peccato è stato espiato. Questo non potevano fare i sacrificii legali, mentre lo ha fatto quello di Cristo. Cf. Ebrei 9:9;10:1,14. In virtù del sangue di Cristo i redenti hanno la libertà di avvicinarsi al trono della grazia fin da ora; ma quando il loro spirito sarà introdotto nella piena luce di Dio essi saranno dei «giusti compiuti», giunti «alla perfezione» Cfr. Ebrei 12:23; 11:40. Quanto a Cristo, l'autore, contrapponendolo agli antichi sacerdoti, semplici uomini soggetti ad ogni infermità, lo chiama «il figlio compiuto (o perfetto) in perpetuo» Ebrei 7:28; e in Ebrei 5:9 scrive: «Sebbene figlio, egli, dalle cose che sofferse, impara l'ubbidienza, e reso compiuto, divenne per tutti quelli che a lui ubbidiscono, autore di una salvazione eterna». Diodati traduce qui «consacrar per sofferenze...» ma non si tratta solamente del consacrar all'ufficio sacerdotale, bensì di rendere il Cristo per ogni verso, perfettamente atto a compiere la propria missione di duce della salvazione. E questa perfetta attitudine morale il Figlio non la poteva acquistare se non coll'entrare nella vita umana, col partecipare alle sue prove ed ai suoi dolori, la morte inclusa. Così facendo, la perfezione morale del figliuol dell'uomo usciva vittoriosa dal crogiuolo e l'esperienza personale del dolore umano lo rendeva atto a simpatizzar cogli uomini e ad essere il loro duce a salvazione. Ben lungi dallo scandalizzarsi del Cristo che soffra privazioni, che lotta e prega e piange ed agonizza e muore, l'anima deve sentirsi attratta verso colui che fu «esperto in languori» e che disse: «Venite a me voi travagliati ed aggravati».

11 Infatti e colui che santifica e quelli che sono santificati discendono tutti da un unico [padre].

Il Bruce crede che con queste parole l'autore abbia voluto formulare il principio generale che serva di base all'esposizione che segue; quasi dicesse: È un assioma, una cosa da tutti ammessa che santificatore e santificati appartengono alla stessa famiglia. Sembra tuttavia più semplice il vedere nella frase la costatazione di un fatto descritto anticipatamente nelle parole dei re e profeti antichi ch'erano tipi del re-profeta perfetto. Ed il fatto è questo, che tra il Messia santificatore ed il popolo dei santificati doveva esservi comunanza di natura, così da formare lui ed essi insieme una medesima famiglia di fratelli. Non già che sia soppressa ogni diversità: colui che santifica di necessità dev'essere personalmente santo Ebrei 7:26, mentre coloro che hanno bisogno d'esser santificati sono contaminati dal peccato Ebrei 9:13. È la presenza del peccato nell'uomo la quale fa sì che a salvazione ha da essere una santificazione. Dai varii passi in cui occorre la parola santificare nell'Ep. agli Ebrei, si deduce ch'essa ha un senso analogo a quello che riveste per lo più nella versione dei Settanta. Santificare vale quindi appartare una cosa od una persona. per consecrarla al servizio di Dio. Così Israele quando fu fatto uscir di Egitto per divenire, in senso speciale, il popolo dell'Eterno, fu detto «popolo santo» Esodo 19:6; Deuteronomio 7:6. I Leviti ed i Sacerdoti appartati dal popolo e consecrati al servizio particolare di Dio sono «santi» Numeri 16:1-10. Gesù dice, parlando della propria consecrazione alla salvazione dei suoi: «Per loro io santifico me stesso» Giovanni 17:19. I cristiani, sotto al nuovo Patto, formano «la nazione santa» e sono detti «santi» o «santificati». Per esser fatti tali, siccome sono per natura colpevoli ed impuri, hanno bisogno d'esser purgati di ogni colpa e rinnovati moralmente. Questi due aspetti della «santificazione» s'incontrano nella nostra Epistola; ma vi predomina il primo. In Ebrei 9:13-14 si allude alla «santificazione» rituale procurata dal sangue di tori e di becchi per contrapporvi la «purificazione» della coscienza dalle opere morte: purificazione che equivale alla reale «santificazione» ed è operata dal sangue di Cristo. In Ebrei 10:10,14,29 i credenti sono «santificati mediante l'offerta del corpo di G. Cristo fatta una sola volta», ovvero col «sangue del patto». E lo stesso concetto ritrovasi in Ebrei 13:12: «Gesù, affinchè santificasse, per mezzo del suo proprio sangue, il popolo, sofferse fuor della porta». L'aspetto morale invece della santificazione è accennato in passi come Ebrei 12:10 «perchè siam partecipi della di lui santità» o Ebrei 12:14. «Procacciate la santificazione...» È il senso che domina negli scritti di san Paolo. Ma, a parte la terminologia, i due autori sono concordi nell'insegnare che la cancellazione della colpa ed il rinnovamento del cuore non possono amar disgiunti in chi è salvato. Nel nostro passo, Cristo è presentato come colui che ritrae dalla contaminazione i suoi e li mette in istato di comparir dinanzi a Dio. Il come non è qui spiegato. L'autore insiste solo sul fatto che il santificante ed i santificati sono tutti εξ ἑνος «da uno», i.e. discendenti d'uno stesso padre, che secondo gli uni è il padre terreno: Abramo o Adamo, secondo altri è Dio. Certo si è che, secondo il disegno di Dio, formano una stessa famiglia. Ed a provarlo l'autore reca alcuni passi dell'A.T. ove alcuni di quegli uomini che, per la loro alta posizione nel popolo di Dio, erano destinati a servir di tipi del Messia, riconoscono i membri più umili del popolo come loro fratelli, loro congiunti.

12 Per la qual cagione ei non si vergogna di chiamarli «fratelli» dicendo: Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, in mezzo all'assemblea, io ti celebrerò.

La citazione è tratta da Salmi 22:23. Il Salmista (Davide, secondo la soprascritta) espone prima in preghiera le sue angosce e le descrive in modo tale che il Cristo ha potuto appropriarsi sulla croce il grido con cui si apre il Salmo (Matteo 27:46 ecc.) e che gli apostoli hanno scorto in altre parole una pittura anticipata della passione di Gesù (cf. Matteo 27:43; Giovanni 19:24). Poi sentendosi, per fede, certo dell'esaudimento, egli prima della fine intuona il canto della riconoscenza. In questo re teocratico sofferente, poi trionfante, l'autore vede un adeguato tipo del Messia e considera perciò come parole del «duce della salvazione» quelle pronunziate dall'antico duce d'Israele quando chiamava suoi fratelli i più umili d'infra il suo popolo.

13 E di nuovo: «Io avrò fiducia in lui». E ancora: «Ecco me ed i fanciulli che Dio mi ha dati».

La duplice citazione è tratta da Isaia 8:17-18. Il profeta in mezzo ad una generazione senza fede, si dichiara risoluto a rimaner saldo nella sua fiducia nel Dio delle promesse e delle liberazioni. Egli, e con lui i suoi figli, associati, per via dei nomi loro imposti, al suo ministerio profetico, resteranno testimoni viventi delle promesse di Dio in mezzo al popolo. (Cfr. Isaia 7:3; 8:3). Anche qui l'autore considera Isaia, il massimo profeta dopo Mosè, come tipo del Profeta supremo. Quindi la fiducia d'Isaia nel suo Dio, prefigura la vita di fede che Gesù visse quaggiù dando esempio perfetto della fiducia che l'uomo deve avere in Dio (Cf. Ebrei 12:2, «Gesù compitor della fede»). Quell'associare con sè i propri figli, prefigura lo stretto legame che doveva esistere tra il Cristo ed i figli spirituali che il Padre gli darebbe. Gesù stesso chiama «figliuoletti» ed «amici» i suoi discepoli Giovanni 17:6; 13:33; 15:5. Secondo le Scritture, adunque, il Salvatore ed i salvati dovevano formare una famiglia di fratelli, viventi una medesima vita di fede in Dio, congiunti fra loro, da una comune natura come lo sono il padre ed i figli.

14 Poiché dunque i «fanciulli» sono partecipi di sangue e carne, (testo em.) anch'egli ha del pari partecipato alle stesse cose, affinchè, per mezzo della morte, riducesse al nulla colui che ha l'imperio della morte, cioè il diavolo, e liberasse guanti, per timor della morte, erano per tutto il corso della vita, soggetti a schiavitù.

Il Salvatore doveva esser il congiunto di coloro ch'egli veniva a salvare; di qui la necessità ch'egli partecipasse alla loro natura terrena. E poiché quelli che la profezia chiama i suoi «figli» hanno un corpo fatto di sangue e carne, soggetto alle infermità ed alla morte, egli ha voluto scendere in questa loro vita terrena partecipando anche lui, al modo stesso degli altri, a sangue e carne. Questi elementi materiali contraddistinguono non solo la natura umana dall'angelica, ma ancora lo stato terreno dell'uomo dal celeste. Il corpo di cui saranno rivestiti i redenti alla risurrezione non sarà più di sangue e carne secondo 1Corinzi 15:50; 6:13. Coll'assumere la nostra natura mortale, il Salvatore mirava a spodestare il re della morte e a liberar gli uomini dal timor di essa. Ma per far questo dovette scendere egli stesso nel regno della morte. Morendo egli ridusse all'impotenza, detronizza colui che teneva l'imperlo della morte, cioè il diavolo. Come ciò? Il diavolo esercita una specie di dominio sul regno tenebroso della morte unicamente per via del peccato ch'egli ha introdotto nel mondo. È la sentenza di Dio sul peccato che ha aperto le porte di quel regno e che vi caccia gli uomini senza posa. Ma Cristo espiando colla propria morte il peccato, ha distrutto l'unico fondamento su cui poggiava il potere del diavolo sulla prigione della morte. «Per questo è apparito il Figliuol di Dio, affinchè distruggesse le opere del diavolo» 1Giovanni 3:8. In pari tempo Cristo libera gli uomini dalla paura della morte. Che cosa è, infatti, che fa della morte «il re degli spaventi» Giobbe 18:14. Senza dubbio vi contribuisce l'apprensione delle sofferenze che conducono all'estremo passo; ma sopratutto è il senso di colpa, l'apprensione del giudicio che segue Ebrei 9:27. Per un peccatore, «e cosa spaventevole, come dice l'Autore Ebrei 10:31, il cader nelle mani del Dio vivente». Questo timore della morte che accompagna l'uomo per tutta la vita, proietta un'ombra triste sulla esistenza terrena. «O morte, esclama il Siracide Siracide 41:1, quanto è amaro il pensier tuo a chi trascorre in face la vita, in mezzo ai beni ch'ella offre». L'autore descrive cotesto stato come una schiavitù a cui l'uomo è sottoposto, ossia condannato come ad una pena ( ενοχος) che dura quanto dura la vita. Da questo stato di schiavitù Cristo ha liberato gli uomini col portar lui la pena dovuta ai loro peccati e col riconciliarli a Dio. Per chi può dire: «Abbiamo pace con Dio, per G. C.», «Non vi è più condanna per coloro che sono in Cristo Gesù», la morte potrà esistere ancora come fatto fisico, ma non più come «salario del peccato». Essa muta aspetto e diventa un «uscire» dalla vita terrena, per andare non già nel regno tenebroso del diavolo, ma nella «patria migliore», nella «Gerusalemme celeste», a raggiungere «l'assemblea festante» degli angeli ed i «giusti pervenuti alla perfezione» (cf. Ebrei 11; 12:22-24); per andare, come dice Paolo, col Signore. «il dardo della morte è il peccato, e la potenza del peccato è la legge. Ma grazie sieno rese a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signor nostro G. C.», il quale ha soddisfatta la legge, ha espiato il peccato, ed ha, per tal modo, tolto alla morte il suo dardo velenoso 1Corinzi 15:56-57. La sua vittoria sarà completa quando, colla risurrezione, la morte sarà distrutta per sempre.

16 Poiché, non è già agli angeli ch'egli porge aiuto, ma è alla progenie d'Abraamo ch'egli porge aiuto.

Se si fosse trattato di trarre a salvazione una categoria d'esseri come gli angeli, certo non sarebbe stata necessaria l'incarnazione e la morte del Figliuol di Dio. Ma per Gesù, non si trattava già come ben sapevano i lettori ( δηπου costata una cosa evidente), di recar soccorso a degli angeli, bensì agli uomini. Il greco επιλαμβανεσθαι (porgere aiuto) significa propriamente afferrare una cosa o persona ponendogli sopra le mani. Lo troviamo quindi nel senso di «metter le mani addosso» a una persona per arrestarla Luca 23:26; Atti 16:19. Paolo esorta Timoteo ad «afferrare» la vita eterna, a guisa di atleta che corre e giunge a metter la mano sul premio. Spesso si adopera del prendere per la mano uno onde aiutarlo o guidarlo (Cf. Ebrei 8:9; Matteo 14:31; Marco 8:23; Luca 14:4). Qui, ove si tratta appunto di liberare, di soccorrere Ebrei 2:15,18 si adatta bene il senso «porgere aiuto», «recar soccorso». I padri greci e latini l'intesero dell'«assumer la natura», ch'è senza esempio nel N.T. Il presente accenna al carattere permanente del soccorso recato da Cristo. Coloro ai quali Cristo porge aiuto sono designati coll'espressione progenie d'Abramo che, secondo gli uni, comprende tutti i discendenti spirituali d'Abramo, cioè tutti quei Giudei o pagani, che ne imitano la fede Galati 3:29; Romani 9:7-8. mentre, secondo altri, il senso va ristretto qui ai discendenti carnali del patriarca, cioè al popolo giudeo. E bisogna riconoscere che l'Epistola non ha traccia del concetto della discendenza spirituale, per cui è più sicuro non introdurlo in questo luogo. Se l'autore non parla che degli Ebrei, i quali dovevano essere i primi oggetti della salvazione, gli è perchè scrive a degli Ebrei; ma il dedurne che sono esclusi i Gentili sarebbe contrario anche all'A.T. Qui, d'altronde, si tratta di mostrar il perchè Cristo ha dovuto assumere la natura ch'è comune a tutti gli uomini.

17 Per cui doveva essere fatto in ogni cosa simile ai suoi fratelli acciocchè divenisse un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose spettanti a Dio, affin di fare propiziazione per i peccati del popolo. Perciocchè inquanto ch'egli stesso, essendo stato provato, ha sofferto, è in grado di soccorrere coloro che sono provati.

Dato il fine di recar soccorso agli uomini, diventava per il Salvatore una necessità, una specie di obbligo morale, ( ωφειλεν) l'entrare appieno nella vita e nell'esperienza umana coll'esser reso in ogni cosa simile ai [suoi] «fratelli». Doveva quindi assumerne la natura completa, spirito, anima e corpo terreno; e, pur conservandosi mondo di quella perversione della natura ch'è il peccato, egli doveva partecipare alle fatiche, ai pericoli, alle privazioni, alle lotte, alle sofferenze che accompagnano attualmente la vita terrena dell'uomo. Era questo moralmente necessario affinchè divenisse un misericordioso e fedel sommo sacerdote nelle cose che riguardano Dio. La Diodatina disgiunge i due qualificativi misericordioso e fedele; non c'è però ragione per non riferirli ambedue al sommo-sacerdote. È questa la prima volta che incontriamo nell'epistola la parola αρχιερευς tradotta dalla Vulgata pontifex, ma dalla Vetus Itala summus sacerdos o princeps sacerdos e rispondente all'ebraico (il gran sacerdote). Il titolo che torna non meno di sedici volte nell'Ep. agli Ebrei, non è applicato in alcun altro scritto del N.T., a Gesù e nemmeno quello di ἱερευς (sacerdote); cosicchè costituisce da solo uno dei caratteri distintivi dell'epistola, tanto più che il concetto espresso nel titolo viene ampiamente svolto dall'autore. Qui è introdotto come di passata onde assuefare gradatamente i lettori ad un concetto che poteva riuscir nuovo a molti, ma che una volta bene compreso dovea raffermare potentemente nella fede, dei credenti abituati alle ombre di quel rituale levitico ove il Sommo Sacerdote aveva larga e solenne parte. «Nel sacerdote, il cui ufficio è di placar l'ira di Dio, di soccorrere ai miseri, di rialzare i caduti, di dar sollievo ai travagliati, si richiede anzitutto quella misericordia che in noi genera il sentimento di comunione con loro. È raro, infatti, che siano tocchi de li altrui mali coloro che sempre furono felici. Il detto virgiliano è, per fermo, derivato dalla comune esperienza: «Non ignara mali, miseris succurrere disco» (Calvino). Misericordioso è colui che sente compassione delle miserie e dei mali altrui e cerca di recargli sollievo. Seneca definiva la misericordia «vizio di animo pusillo»; ma la S. Scrittura ne fa una delle più dolci perfezioni di Dio, ed una delle qualità richieste nel Sommo Sacerdote del Nuovo Patto. Mentre il «misericordioso» accenna al sentimento che lo anima, il fedele accenna al modo coscienzioso col quale egli adempie ogni dovere connesso coll'ufficio suo, così da meritare la più assoluta fiducia. Ma per riuscire un sommo sacerdote misericordioso e fedele era necessario che passasse per la scuola della sofferenza, facendone l'esperienza personale in una vita umana. Così divenne compiuto. In Ebrei 5:8 l'autore dirà: «Dalle cose che sofferse, imparò l'ubbidienza». La sfera d'azione del sacerdote è descritta con una locuzione molto concisa: τα προς τον θεον (cfr. Ebrei 5:1) che significa: «quanto alle cose che si riferiscono a Dio». Il sacerdozio riguarda le relazioni tra l'adoratore e Dio. il sacerdote è un mediatore.

Trattandosi delle relazioni tra il Dio santo e gli uomini peccatori, l'ufficio essenziale del sacerdote era, nell'economia mosaica, quello di fare propiziazione per i peccati del popolo. Il sommo sacerdote ebreo adempieva quell'ufficio in modo particolarmente solenne nel giorno delle Espiazioni (Kippurim) di cui Levitico 16. Il gran Sacerdote del Nuovo Patto, misericordioso e fedele fino a dare la propria vita per il popolo, ha fatta la propiziazione col sacrificio di sè stesso, sul Golgota. Il verbo ἱλασκεσθαι (far propiziazione) significa, nella voce media, rendersi uno propizio ( ἱλεως Ebrei 8:12); e nel passivo vale esser fatto propizio, esser placato. Si confr. Luca 18:13, la preghiera del pubblicano: «O Dio sii placato verso me...» e 2Re 5:18. Qui ov'è usato in senso transitivo, come spesso nella LXX, viene a significare: fare la propiziazione per i peccati, espiami, o farne il purgamento mediante il sacrificio, così che i peccati non impediscano più la manifestazione del favor di Dio. Nota il Delitzsch come nella Scrittura non si dice propriamente che Cristo col suo sacrificio abbia placato Iddio, perchè il sacrificio stesso è già un dono dell'amor di Dio Ebrei 2:9. «La tempesta dell'ira che il Santo e Diletto ebbe a subire, non fece che squarciare il velo che nascondeva l'eterno sole dell'amore... La maledizione che Cristo portò per noi aperse il varco alla benedizione nascosta dietro a quella».

18 La morte di Cristo non ha posto termine all'esercizio della sua misericordiosa simpatia verso il suo popolo. L'espiazione dei peccati non è che una parte dell'ufficio sacerdotale di lui; egli vive per condurre al suo glorioso compimento la salvazione dei suoi. Il purgamento dei loro peccati non li esenta dalle prove e tentazioni ed infermità della vita cristiana. In queste svariate prove essi hanno in Cristo uno ch'è in grado di soccorrerli secondo il loro bisogno. Ha la voluta potenza poiché siede alla destra. di Dio; ma possiede del pari la necessaria simpatia perchè ha sofferto egli stesso, essendo stato, durante la sua vita terrena, sottoposto ad ogni sorta di prove e tentazioni. Il greco ha una sola parola per indicare così le prove che vengono da Dio e mirano al bene dei suoi figli (1Pietro 1:6-7; Giacomo 1:2 ecc.), come le tentazioni che vengono da Satana e mirano a sovvertire la loro fede. Nell'uno come nell'altro caso il sommo sacerdote del Nuovo Patto è in grado di porgere a coloro che sono nella prova, l'aiuto necessario. «Avendo conosciute tutte le nostre prove e tutte le nostre tentazioni, avendo sofferto nel suo corpo, sofferto nell'anima sua, nel suo cuore e nelle sue pio intime affezioni, sofferto da parte dei suoi amici e dei suoi congiunti, sofferto da parte di Satana, sofferto sotto alla mano di Dio stesso, il misericordioso Sostituto dei peccatori può soccorrere ora coloro che sono posti alla prova» (E. Guers). Il ricordare questa verità a dei cristiani tentati di indietreggiare dinanzi alle prove, era particolarmente opportuno.

Ammaestramenti

1. «In ogni cosa Cristo ha da tenere il primo grado», dice Paolo in Colossesi 1:18. E ricorda ch'egli è il Figliuol di Dio, l'immagine di Dio, generato innanzi ad ogni creatura, colui per il quale sono state create tutte le cose, ed in cui tutte le cose sussistono, colui ch'è il capo del corpo della Chiesa, il primogenito dai morti. Seguendo un corso analogo di pensieri l'autore della nostra Epistola c'insegna che il Rivelatore del Nuovo Patto, è superiore ai profeti ed agli angeli perchè Figlio di Dio, Agente di Dio, nella creazione e nel reggimento del mondo. Ma egli lo è del pari perchè a lui è sottoposto il mondo rinnovato dalla grazia. Egli è il re del Regno di Dio, il Duce della umanità redimenda, colui che la conduce alla gloria ov'egli l'ha preceduta. S'egli si è abbassato fino ad essere inferiore agli angeli, la sua umiliazione temporanea non è stata se non la via necessaria al compimento della sua missione salvatrice. Ma fin d'ora lo contempliamo in fede «coronato di gloria e d'onore»; sovranamente esaltato a motivo del suo stesso abbassamento, raggiante della gioia del condurre a salvazione le innumerevoli moltitudini di creature. Come al principio del cap. I, ci sta dinanzi anche qui il Cristo nella pienezza indivisibile dei suoi uffici di Profeta, di Sacerdote e di Re, capace di rispondere ai bisogni tutti della mente, della coscienza e del cuore dell'uomo

2. L'alta dignità e gli eccelsi destini dell'uomo già erano insegnati nell'A.T., nella storia della creazione e nell'eco lirica di essa nei Salmi. Ma colui ch'era destinato a santa ubbidienza, si trascina ora nella colpa e nella corruzione; colui ch'era destinato a regnare, degradato dal peccato, vive ora nella debolezza, nel dolore e nella miseria. Il contrasto ch'egli sente tra l'ideale suo così lontano e la triste realtà lo rendono scontento ed irrequieto. Colui ch'era destinato a non veder la morte si trova a menare una vita incerta, su cui del continuo la morte stende la sua umbra e i suoi terrori invano negati.

Chi porgerà la mano a questo re decaduto per trarlo dalla ruina e condurlo alla gloria destinatagli? La grazia di Dio ch'è Creatore e Padre. L'uomo è sua creatura, è suo figlio, e Colui «per cagion del quale e per mezzo del quale son tute le cose» non lo lascerà perire, ma troverà nella sua bontà e nella sua sapienza il mezzo di trarlo a salvamento.

Questo mezzo quale sarà egli? Non un mezzo che sia la negazione della santità di Dio e della natura morale dell'uomo. Sarà l'incarnazione del Figliuol di Dio. Nel Verbo fatto carne, rivestito di nostra natura corporale e morale, apparirà per la prima volta l'ideale dell'uomo qual era nella mente di Dio. Il Duce della salvazione sarà un nuovo Adamo. Sarà santo per poter santificare i suoi fratelli. Sperimenterà le prove e le sofferenze nostre onde poter simpatizzare con noi e soccorrerci. Gusterà la morte per fare coi suoi patimenti l'espiazione dei nostri peccati e liberarci dai terrori della morte riconciliandoci con Dio. Nel mondo rinnovato dall'opera di Cristo, l'uomo raggiungerà il suo glorioso destino; chiunque è unito a lui per fede e lo segue, sarà con lui «coronato di gloria e d'onore»

3. La maggior tristezza della morte non sta nel dolore del morire; poiché altri dolori sono più crudeli di questo. Non sta neppure nella necessità di abbandonare quel ch'era la nostra soddisfazione o il nostro giacere. Essa sta nel male che abbiamo dentro di noi e da cui la morte non ci libera. (Cfr. Schlatter). Quando siamo da Cristo liberati dalla condannazione e affrancati dalla servitù del peccato ch'è fonte di turbamento all'anima, allora anche la morte cessa dall'essere il re degli spaventi e diventa un messaggere di Dio che ci apre la casa del Padre. Ma fuor di Cristo per quanto si faccia o si finga, la morte resta uno spettro che atterrisce. La speranza cristiana trionfa dei suoi terrori.

4. Reso perfetto mediante i patimenti! Quale lezione sulla necessità, anche per noi, della disciplina della sofferenza! Dalla passione santificata procede la compassione; dal patire la simpatia. Nelle prove e tentazioni facciamo l'esperienza della nostra debolezza e del bisogno che abbiamo d'esser soccorsi da Colui che può e vuole soccorrere coloro che sono tentati. L'esperienza delle sofferenze e dell'aiuto divino ci rendono viemeglio atti al servizio che ci è affidato nel regno di Dio, ci fanno progredire nella filiale ubbidienza al nostro Padre. «Gesù benedetto, imploriamo il tuo aiuto in tutte le nostre afflizioni, in tutte le nostre lotte col maligno, col mondo e colla carne. Si adempia in noi la tua parola: Perchè ho vinto, voi ancora vincerete» (Chalmers).

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