Commentario abbreviato:

Ebrei 11

1 Capitolo 11

La natura e la forza della fede descritta Ebr 11:1-3

È illustrato da esempi che vanno da Abele a Noè Ebr 11:4-7

Da Abramo e dalla sua discendenza Ebr 11:8-19

Da Giacobbe, Giuseppe, Mosè, gli Israeliti e Raab Ebr 11:20-31

Da altri credenti dell'Antico Testamento Ebr 11:32-38

La condizione migliore dei credenti sotto il Vangelo Ebr 11:39-40

Versetti 1-3

La fede è sempre stata il segno dei servitori di Dio, fin dall'inizio del mondo. Dove il principio è piantato dallo Spirito rigenerante di Dio, esso farà sì che la verità venga accolta, riguardo alla giustificazione per le sofferenze e i meriti di Cristo. E le stesse cose che sono oggetto della nostra speranza, sono oggetto della nostra fede. È una ferma persuasione e aspettativa che Dio realizzerà tutto ciò che ci ha promesso in Cristo. Questa persuasione dà all'anima la possibilità di godere di quelle cose ora; dà loro una sussistenza o una realtà nell'anima, attraverso le primizie e le anticipazioni di esse. La fede dimostra alla mente la realtà di cose che non possono essere viste dall'occhio fisico. È una piena approvazione di tutto ciò che Dio ha rivelato come santo, giusto e buono. Questa concezione della fede è spiegata da molti esempi di persone che, nei tempi passati, hanno ottenuto un buon rapporto o un carattere onorevole nella Parola di Dio. La fede è stata il principio della loro santa obbedienza, dei loro notevoli servizi e delle loro pazienti sofferenze. La Bibbia fornisce il resoconto più veritiero ed esatto dell'origine di tutte le cose, e noi dobbiamo crederci, e non stravolgere il resoconto scritturale della creazione perché non si adatta alle diverse fantasie degli uomini. Tutte le opere della creazione che vediamo sono state create per ordine di Dio.

4 Versetti 4-7

Ecco alcuni esempi illustri di fede tratti dall'Antico Testamento. Abele portò un sacrificio di espiazione dalle primizie del gregge, riconoscendosi peccatore che meritava di morire e sperando solo nella misericordia del grande Sacrificio. La rabbia orgogliosa e l'inimicizia di Caino contro l'adoratore accettato di Dio portarono ai terribili effetti che gli stessi principi hanno prodotto in ogni epoca: la crudele persecuzione e persino l'omicidio dei credenti. Per fede Abele, pur essendo morto, parla; ha lasciato un esempio istruttivo e parlante. Enoc fu tradotto, o allontanato, perché non vedesse la morte; Dio lo portò in cielo, come Cristo farà con i santi che saranno vivi alla sua seconda venuta. Non possiamo arrivare a Dio se non crediamo che egli è ciò che ha rivelato di essere nelle Scritture. Chi vuole trovare Dio, deve cercarlo con tutto il cuore. La fede di Noè influenzò la sua pratica; lo spinse a preparare un'arca. La sua fede condannò l'incredulità degli altri e la sua obbedienza condannò il loro disprezzo e la loro ribellione. I buoni esempi convertono i peccatori o li condannano. Questo mostra come i credenti, avvertiti da Dio di fuggire dall'ira futura, siano mossi dal timore, si rifugino in Cristo e diventino eredi della giustizia della fede.

8 Versetti 8-19

Spesso siamo chiamati a lasciare legami, interessi e comodità mondane. Se siamo eredi della fede di Abramo, obbediremo e andremo avanti, pur non sapendo cosa ci accadrà; e ci troveremo sulla strada del dovere, cercando l'adempimento delle promesse di Dio. La prova della fede di Abramo fu che egli obbedì semplicemente e pienamente alla chiamata di Dio. Sara accolse la promessa come promessa di Dio; essendo convinta di ciò, giudicò veramente che egli avrebbe potuto e voluto realizzarla. Molti, che hanno una parte nelle promesse, non ricevono presto le cose promesse. La fede può afferrare le benedizioni a grande distanza; può renderle presenti; può amarle e gioire di esse, anche se estranee; come santi, la cui casa è il cielo; come pellegrini, in viaggio verso la loro casa. Per fede, superano i terrori della morte e si congedano allegramente da questo mondo e da tutte le sue comodità e croci. Chi è stato veramente e salvificamente chiamato fuori dallo stato di peccato, non ha alcuna intenzione di ritornarvi. Tutti i veri credenti desiderano l'eredità celeste; e quanto più forte è la fede, tanto più fervidi saranno i loro desideri. Nonostante la loro meschinità per natura, la loro bassezza per il peccato e la povertà della loro condizione esteriore, Dio non si vergogna di essere chiamato il Dio di tutti i veri credenti; tale è la sua misericordia, tale è il suo amore per loro. Non si vergognino mai di essere chiamati il suo popolo, né di nessuno di coloro che lo sono veramente, per quanto disprezzati dal mondo. Soprattutto, facciano attenzione a non essere una vergogna e un rimprovero per il loro Dio. La prova e l'atto di fede più grande che si ricordi è l'offerta di Isacco da parte di Abramo (Gen 22:2). Ogni parola è una prova. Abbiamo il dovere di far tacere i nostri dubbi e le nostre paure guardando, come fece Abramo, all'onnipotenza di Dio. Il modo migliore per godere delle nostre comodità è abbandonarle a Dio, che poi le ridarà come sarà meglio per noi. Guardiamo fino a che punto la nostra fede ha provocato la stessa obbedienza, quando siamo stati chiamati ad atti di abnegazione minori o a fare sacrifici più piccoli per il nostro dovere. Abbiamo rinunciato a ciò che era richiesto, credendo pienamente che il Signore avrebbe compensato tutte le nostre perdite e ci avrebbe benedetto anche con le dispensazioni più afflittive?

20 Versetti 20-31

Isacco benedisse Giacobbe ed Esaù, riguardo alle cose future. Le cose presenti non sono le migliori; nessuno conosce l'amore o l'odio avendoli o mancandoli. Giacobbe visse per fede e morì per fede e nella fede. Sebbene la grazia della fede sia sempre utile per tutta la vita, lo è soprattutto quando si arriva alla morte. La fede ha una grande opera da compiere alla fine, per aiutare il credente a morire al Signore, in modo da onorarlo, con pazienza, speranza e gioia. Giuseppe fu provato dalle tentazioni di peccato, dalla persecuzione per aver mantenuto la sua integrità; fu provato dagli onori e dal potere alla corte di Faraone, ma la sua fede lo portò avanti. È una grande misericordia essere liberi da leggi ed editti malvagi; ma quando non lo siamo, dobbiamo usare tutti i mezzi leciti per la nostra sicurezza. In questa fede dei genitori di Mosè c'era un misto di incredulità, ma Dio si compiacque di trascurarla. La fede dà forza contro il timore peccaminoso e servile degli uomini; pone Dio davanti all'anima, mostra la vanità della creatura e che tutto deve cedere il passo alla volontà e alla potenza di Dio. I piaceri del peccato sono e saranno brevi; devono finire o con un rapido pentimento o con una rapida rovina. I piaceri di questo mondo sono per lo più piaceri del peccato; lo sono sempre quando non possiamo goderne senza abbandonare Dio e il suo popolo. La sofferenza va scelta piuttosto che il peccato; c'è più male nel minimo peccato che nella massima sofferenza. Il popolo di Dio è, ed è sempre stato, un popolo rimproverato. Cristo si fa rimproverare nei loro rimproveri, che diventano così una ricchezza più grande dei tesori del più ricco impero del mondo. Mosè fece la sua scelta quando era maturo per il giudizio e il godimento, in grado di sapere cosa aveva fatto e perché l'aveva fatto. È necessario che le persone siano seriamente religiose; che disprezzino il mondo, quando sono più capaci di assaporarlo e goderlo. I credenti possono e devono avere rispetto per il compenso della ricompensa. Per fede possiamo essere pienamente sicuri della provvidenza di Dio e della sua presenza benevola e potente con noi. Questa visione di Dio permetterà ai credenti di andare avanti fino alla fine, qualunque cosa incontrino sul cammino. Non è grazie alla nostra giustizia o alle nostre migliori prestazioni che siamo salvati dall'ira di Dio, ma grazie al sangue di Cristo e alla sua giustizia imputata. La vera fede rende il peccato amaro per l'anima, anche se riceve il perdono e l'espiazione. Tutti i nostri privilegi spirituali sulla terra dovrebbero accelerare il nostro cammino verso il cielo. Il Signore fa cadere persino Babilonia davanti alla fede del suo popolo e, quando deve fare qualcosa di grande per loro, suscita in loro una fede grande e forte. Un vero credente desidera non solo essere in alleanza con Dio, ma anche in comunione con il popolo di Dio, ed è disposto a fare come loro. Con le sue opere Raab si dichiarava giusta. Che non fosse giustificata dalle sue opere appare chiaramente; perché l'opera che fece era difettosa nel modo e non perfettamente buona, quindi non poteva rispondere alla perfetta giustizia o rettitudine di Dio.

32 Versetti 32-38

Dopo tutte le nostre ricerche nelle Scritture, c'è ancora molto da imparare da esse. Dovremmo essere lieti di pensare a quanto grande fosse il numero dei credenti sotto l'Antico Testamento e quanto forte fosse la loro fede, anche se gli oggetti di essa non erano allora così pienamente conosciuti come ora. E dovremmo lamentarci che ora, ai tempi del Vangelo, quando la regola della fede è più chiara e perfetta, il numero dei credenti sia così ridotto e la loro fede così debole. È l'eccellenza della grazia della fede che, mentre aiuta gli uomini a fare grandi cose, come Gedeone, li allontana da pensieri elevati e grandiosi su se stessi. La fede, come quella di Barak, ricorre a Dio in tutti i pericoli e in tutte le difficoltà, e poi rende grazie a Dio per tutte le misericordie e le liberazioni. Per fede, i servi di Dio vinceranno anche il leone ruggente che va in cerca di chi divorare. La fede del credente resiste fino alla fine e, morendo, gli dà la vittoria sulla morte e su tutti i suoi nemici mortali, come Sansone. La grazia di Dio spesso si posa su persone molto immeritevoli e mal meritevoli, per fare grandi cose per loro e da loro. Ma la grazia della fede, ovunque essa sia, porterà gli uomini a riconoscere Dio in tutte le loro vie, come Iefte. Renderà gli uomini audaci e coraggiosi per una buona causa. Pochi hanno incontrato prove più grandi, pochi hanno mostrato una fede più viva di Davide, che ha lasciato una testimonianza delle prove e degli atti di fede nel libro dei Salmi, che è stata e sarà sempre di grande valore per il popolo di Dio. Chi si distingue per la fede è probabile che inizi presto, come Samuele, a esercitarla. E la fede permetterà a un uomo di servire Dio e la sua generazione, in qualsiasi modo venga impiegato. Gli interessi e i poteri dei re e dei regni si oppongono spesso a Dio e al suo popolo, ma Dio può facilmente sottomettere tutti coloro che gli si oppongono. È un onore e una felicità maggiore operare la giustizia che fare miracoli. Per fede abbiamo il conforto delle promesse; per fede siamo pronti ad aspettare le promesse e a riceverle a tempo debito. E anche se non speriamo che i nostri parenti o amici morti vengano riportati in vita in questo mondo, la fede ci sosterrà in caso di perdita e ci indirizzerà verso la speranza di una risurrezione migliore. Dobbiamo stupirci della malvagità della natura umana, che è capace di crudeltà così terribili nei confronti dei suoi simili, o dell'eccellenza della grazia divina, che è in grado di sopportare i fedeli sotto tali crudeltà e di portarli al sicuro attraverso tutto? Che differenza tra il giudizio di Dio su un santo e il giudizio dell'uomo! Il mondo non è degno di quei santi disprezzati e perseguitati, che i loro persecutori ritengono indegni di vivere. Non sono degni della loro compagnia, del loro esempio, dei loro consigli o di altri benefici. Perché non sanno cosa sia un santo, né il valore di un santo, né come usarlo; li odiano e li allontanano, come fanno con l'offerta di Cristo e della sua grazia.

39 Versetti 39-40

Il mondo ritiene che i giusti non siano degni di vivere nel mondo, e Dio dichiara che il mondo non è degno di loro. Sebbene i giusti e i mondani differiscano ampiamente nel loro giudizio, concordano su questo punto: non è opportuno che gli uomini buoni abbiano il loro riposo in questo mondo. Perciò Dio li accoglie al di fuori di esso. L'apostolo dice agli Ebrei che Dio aveva provveduto a cose migliori per loro, quindi potevano essere certi che si aspettava da loro cose altrettanto buone. Poiché i nostri vantaggi, con le cose migliori che Dio ci ha fornito, sono molto superiori ai loro, la nostra obbedienza di fede, la nostra pazienza di speranza e il nostro lavoro d'amore dovrebbero essere maggiori. E se non avremo una fede vera come quella di questi credenti, essi si alzeranno per condannarci all'ultimo giorno. Preghiamo dunque continuamente per l'aumento della nostra fede, affinché possiamo seguire questi esempi luminosi ed essere, con loro, finalmente resi perfetti in santità e felicità, e risplendere come il sole nel regno di nostro Padre per sempre.

Commentario del Nuovo Testamento:

Ebrei 11

1 Sezione 4. Ebrei 11. QUARTO MOTIVO DI PERSEVERANZA: LA POTENZA DELLA FEDE ILLUSTRATA DAGLI ANTICHI CREDENTI.

La vita è promessa alla fede e noi vogliamo essere uomini di fede per far guadagno dell'anima. Così concludeva l'autore la sezione precedente. Ed a vie meglio incuorare i lettori a perseverare in fede egli rievoca ora dinanzi a loro come in un rapido quadro i passati trionfi della fede illustrandoli coll'esempio degli antichi uomini di Dio; ed a misura che la sua mente contempla la potenza vittoriosa della fede, nella vita dei padri, la sua parola quasi si eleva alla forma ritmica della poesia e la sua dimostrazione diventa un inno. Nulla, osserva il Bruce, era più adatto di un tale discorso al fine di aiutare i cristiani Ebrei vacillanti ad essere ancor essi, fino alla fine, uomini di fede. L'autore non si propone già di dimostrare loro qual sia la natura astratta della fede; quello che vuol mostrare è la sua potenza morale, la sua virtù pratica: virtù che si spiega appunto per la natura della fede. «Siate uomini di fede, egli dice loro, perchè la fede ha una grande potenza: essa rende l'uomo così sicuro del futuro, come se fosse già presente; essa rende visibile l'invisibile. Tutto quello che vi è di grande nella storia del popolo di Dio è frutto della fede. Chi non persevera in essa perde il carattere distintivo dei cittadini del regno di Dio». E si noti che i suoi trionfi passati la fede li aveva spesso riportati in circostanze non molto dissimili da quelle in cui si trovavano i lettori dell'Epistola.

Nella prima frase (v. 1) lo scrittore indica in modo generico qual'è la virtù principale, il trionfo maggiore della fede.

Or la fede è realtà di cose che si sperano, dimostrazione di cose che non si vedono.

Non è questa la definizione teologica o come direbbe Dante la quiditate della fede. L'essenza della fede è la fiducia del cuore in Dio e nelle sue promesse bene accertate alla mente. Ma l'autore scrive a degli Ebrei che conoscono la Rivelazione di Dio dell'antico e del nuovo Patto, e la definizione che dà della virtù meravigliosa della, fede è formulata in modo da applicarsi ai credenti di tutti i tempi. Per gli antichi, parte importante delle rivelazioni divine erano le promesse relative al Messia, relative alla futura redenzione ed al regno di Dio. In queste promesse stavano le speranze d'Israele. La fede che rendeva le cose sperate così certe come se fossero una realtà presente era quindi per loro «realtà di cose sperate». Colla venuta di Cristo una parte delle cose sperate dagli antichi si erano avverate, ma il glorioso compimento della salvazione negli individui e nell'umanità rimane pur sempre fra le cose sperate che la fede rende presenti. Ma siccome non tutte le rivelazioni di Dio sono promesse di benedizioni - talune sono minaccie - nè tutte si riferiscono a cose future - talune riguardano il presente e perfino il passato - così l'autore volendo presentare la potenza della fede nel modo più ampio possibile, aggiunge ch'essa è «dimostrazione di cose che non si vedono», siano poi queste cose, sperate o temute, future o presenti o passate. La parola greca ὑποστασις (ipostasi) che rendiamo realtà è tradotta dalla Volg. Substantia e dal Diod. sussistenza. Cf. Ebrei 1:3. Siccome però può significare «salda fiducia» «certezza» come Ebrei 3:14; 2Corinzi 9:4; 11:7, alcuni espositori si fermano a questo senso. È questione di grado. Ma siccome l'espressione «ipostasi di cose sperate» fa riscontro all'altra «dimostrazione di cose che non si vedono», crediamo si debba accettare il senso più forte. La fede che poggia sulla Parola di Dio, anzi su Dio stesso, rende così certe all'anima le cose che sono oggetto della sua speranza da trasformarle in cose reali per lei. Considerate così come realtà vicine o lontane, esse agiscono con tutta la forza dei fatti sullo spirito, sono un tesoro che trae seco il cuore, determinano il concetto che uno si fa del mondo presente, dello scopo ultimo della vita e della via migliore da seguire quaggiù. Per Noè credente il diluvio annunziatogli da Dio è una realtà prossima, perciò egli fabbrica l'arca. Per gli Ebrei stessi la realtà assoluta dei beni migliori sperati era quella che li aveva fatti capaci di accettar con gioia la ruberia dei loro beni terreni. L'altra parola adoperata per rappresentare la potenza della fede ( ελεγχος) ha sempre alla base l'idea di dimostrazione. Es. Efesini 5:13. «Tutte le cose essendo palesate dalla luce diventano manifeste». Cf. Giovanni 3:20-21. Per lo più si applica alla dimostrazione della colpabilità fatta col porre dinanzi alla coscienza la verità delle cose Giovanni 16:8; 2Timoteo 3:16. Vale allora convinzione ed anche riprensione. La troviamo usata di una dimostrazione anche intellettuale in Tito 1:9. Qui conserva il suo senso primo di dimostrazione, di evidenza. La fede ha la virtù di rendere visibili all'occhio dello spirito, le cose che sono invisibili, almeno per ora, all'occhio del corpo. Non dimostra per via di sillogismi complicati. La sola premessa su cui basa ogni cosa è questa: «Fedele è Colui che ha fatte le promesse». Fondata sulla parola di Dio, essa contempla l'invisibile. La voce delle cose invisibili, osserva Schlatter, diventa allora più forte di quella delle visibili; non ci lascia riposo, distrugge le vane apparenze e le false speranze. Mosè stette costante «come vedendo l'invisibile». I patriarchi morirono senza aver ricevuto le promesse, «ma avendole vedute da lontano e salutate». Abramo, per fede, vide il giorno di Cristo e se ne rallegrò Giovanni 8:56. Il sommo sacerdote è salito in alto e ministra in un santuario invisibile. Ma la fede lo contempla come se fosse visibile e poggiata su lui vede compiuto il regno di Dio. In modo generale, anche all'infuori della sfera religiosa, la, fede ha la virtù di trasfigurare in realtà le cose sperate - d'illuminare di viva luce le cose «non parventi». La fede storica ci fa vivere in mezzo ad uomini ed eventi da lungo tempo spariti nel passato. La fede scientifica mostra a Colombo il continente invisibile verso il quale fa vela. La fede del patriota fa brillare dinanzi a lui la visione della patria una, libera e lo rende capace di eroici sacrifizi per il suo ideale.

2 Per essa infatti hanno gli antichi ricevuta [buona] testimonianza.

E così meravigliosa la sua potenza, che gli antichi uomini di Dio i quali si sono distinti per fede, hanno ottenuta da Dio una buona testimonianza; sono stati da lui graditi, lodati e proposti ad esempio delle future generazioni. La testimonianza di Dio a loro riguardo trovasi registrata nelle S. Scritture. Ivi sono narrati gli eroismi spirituali di cui li fece capaci la fede.

Questi uomini dell'antichità di cui vengono passati in rassegna gli atti di fede, si possono dividere in tre gruppi a seconda che appartengono ai tempi primitivi, all'epoca patriarcale, od ai tempi dell'economia, legale, da Mosè in poi.

3 a) Tempi primitivi. Ebrei 11:3-7.

Alla menzione degli antichi sembra che dovrebbe subito tener dietro il nome d'un eroe della fede. Invece non è così perchè il gran fatto della creazione, principio e base della storia, argomento della. prima pagina della S. Scrittura come delle prime rivelazioni di Dio all'uomo, offre una prima illustrazione della virtù della fede.

Per fede intendiamo che i secoli sono stati formati per la parola di Dio, talchè quel che si vede non è stato fatto da cose apparenti.

Il fatto della creazione è stato certamente comunicato ai nostri primi progenitori per via di rivelazione divina; ma è stato oggetto della fede non di un uomo nè di un'epoca solamente, ma dei credenti di tutti i tempi: perciò dice l'autore, al plurale: Per fede intendiamo... Il fatto primordiale della creazione, base delle relazioni tra l'uomo e Dio, non è di quelli che l'uomo abbia potuto costatare de visu, non è un fatto sensibile; noi lo intendiamo per l'istrumentalità della fede ( πιστει dat. istrum.) che accoglie la comunicazione divina, e trovando nella infinita intelligenza e potenza del Dio vivente la sola spiegazione soddisfacente del mondo visibile, ci mette in grado di avere un'idea dell'origine delle cose. In Romani 1:20 Paolo dice che «le invisibili perfezioni di Dio, essendo fin dalla creazione intese, per mezzo delle opere sue, si vedono chiaramente». Le opere fanno conoscere alla mente umana l'operaio. «Il νους (la mente) è, infatti, quella facoltà razionale e spirituale il cui ufficio e prerogativa è di penetrare e scoprire la Unità divina ch'è la radice invisibile e l'origine dei fenomeni molteplici dell'universo visibile. Intendere ( νοειν) è l'atto razionale e spirituale della mente che cerca la ragione ultima, i principii più profondi delle cose esterne» (Delitzsch). Ma se la mente umana non può non scorgere nell'universo l'impronta di Dio, la fede sola, poggiante sulla rivelazione, ci può dare una idea ragionevole e sufficiente dell'origine delle cose. «Per fede, nota il Westcott, giungiamo alla certezza che, il mondo, che la storia, non è il prodotto d'un cieco fato, ma risponde alla espressione della volontà divina... Il concetto della creazione per la parola di Dio, fondamento necessario della vita della fede, conduce poi giustamente alla credenza presente nella potenza di Dio come conservatore e governatore di ciò che egli ha creato... Le cose apparenti non possono dare una spiegazione dell'origine dell'universo che ci sta dinanzi». Dove la luce della rivelazione primitiva si è spenta, l'origine del mondo è rimasta un enimma impenetrabile, come lo rimane del pari là dove non si presta fede alla rivelazione. La fede ch'è dimostrazione di cose che non si vedono, apre alla mente il mistero e ci fa contemplare come in un panorama il successivo comparire dei mondi chiamati all'esistenza dalla parola di Dio - espressione della sua volontà ( ρημα). Per la volontà cosciente di Dio sono stati formati i secoli. Il verbo καταρτιζω (formare, preparare) abbraccia il creare dal nulla e il render pronta ogni cosa. I secoli sono i mondi in quanto esistono nello spazio e nel tempo. Le due parole accennano alla grandezza del creato, alla varietà ed armonica unità delle cose create. L'autore ha dinanzi alla mente il quadro di Genesi 1 ove la parola di Dio chiama all'esistenza le epoche successive colle loro sempre nuove forme di vita. L'universo visibile, secondo la Genesi, non è uscito da ( εκ fuori da) cose apparenti, da una pretesa materia eterna. È uscito dalla mente e dalla onnipotenza di Dio, il quale «disse e la cosa fu.» Salmi 33:9.

4 Per fede Abele offerse a Dio un sacrificio più eccellente che Caino; per mezzo di essa ricevette la testimonianza d'esser giusto, rendendo, Iddio testimonianza sopra i suoi doni; e per mezzo di esso, dopo esser morto, parla ancora.

Il greco dice propriamente «un maggiore sacrificio»; ma s'intende un sacrificio, non di maggior valore materiale, ma di maggior valore spirituale, un sacrificio più eccellente agli occhi di Dio (cf. Ebrei 3:3; Matteo 6:25 ecc.). Quel che dà all'offerta di Abele un maggior valore, è la disposizione con cui viene presentata cioè la fede che n'è come l'anima. Codesta fede implica non solo la credenza nell'esistenza di Dio - poichè anche Caino ci crede - ma implica la nozione ed il giusto sentimento di quel che Dio è, come pure di quel che l'uomo peccatore è di fronte a Dio. In questo sentimento sono racchiusi il pentimento e la fiducia nella misericordia di Dio preannunziata nella promessa di Genesi 3:15. Nulla ci autorizza, anche nel testo della Genesi 4 a credere che il sacrificio di Abele fu accetto perchè cruento o perchè preso sul meglio delle greggie. Quel che, secondo la Genesi, rese accetto il sacrificio di Abele fu la pietà di lui e quel che fece rigettare l'offerta di Caino non fu il fatto ch'essa era incruenta o composta di roba da rifiuto, ma la malvagità di lui. «Se tu fai bene non rialzerai tu il capo?» (Genesi 4:6-7 cf. con 1Giovanni 3:7,11-12; Matteo 23:35). «Il sacrificio degli empi è cosa abbominevole presso l'Eterno» Proverbi 15:8. In armonia colla Genesi, lo scrittore degli Ebrei dichiara che la fede d'Abele fu quella che diede valore alla sua offerta. Per mezzo di essa fede Abele ricevette da Dio la testimonianza d'essere accetto, pio, giusto, non di una giustizia imputata, ma di quella, giustizia ch'è conformità alla volontà di Dio e ch'è frutto della fede. Come Dio abbia reso questa testimonianza riguardo ai doni offerti da Abele, non sappiamo. La tradizione, ragionando per via di analogia con altri fatti come Genesi 15:17; Levitico 9:24; 1Re 18:38, suppose che il fuoco celeste abbia, consumato il sacrificio.

Nell'ultima proposizione alcuni codici leggono il passivo λαλειται (è detto, mentovato) aggiungendo in qualche caso a Dio. Il testo più semplice adottato dalle edizioni critiche dice parla. Riferendosi a quanto è detto Ebrei 12:24: «il sangue di Cristo parla meglio di Abele», alcuni espositori vedono qui un'allusione a Genesi 4:10. La voce del sangue del tuo fratello grida a me dalla terra». Il presente λαλει sarebbe un presente descrittivo o storico e l'idea sarebbe che la fede rende una persona accetta a, Dio mentre vive e gliela rende preziosa anche quando è morta, talchè egli ne vendica il sangue sparso. (Cfr. Salmi 116:15; 72:14). Preferiamo tuttavia intendere questo parlar d'Abele dopo morte del parlar che fa alle successive generazioni per mezzo del suo esempio conservato per volontà di Dio nelle Sacre Scritture. Per quanto sia lontano da noi il tempo in cui visse, pure, per mezzo della fede di cui diede luminoso esempio egli, anche oggi ( ετι), parla ancora a noi. E si noti che gli Ebrei cristiani erano anch'essi come Abele oggetto dell'odio e delle persecuzioni dei loro fratelli secondo la carne.

5 Per fede Enoc fu trasferito acciò non vedesse la morte e «non fu [più] trovato perchè Dio l'avea trasferito».

Per fede viene a dire qui «in grazia della sua fede, per cagione di essa». L'ebraico di Genesi 5:24 dice semplicemente che «Enoc, dopo che ebbe camminato con Dio, non fu più (o sparì) perchè Dio lo prese». Ma in questa sparizione di Enoc dal mondo in età relativamente giovane e questo per opera di Dio che lo prese, è implicato il «trasferimento» od il trasloco da questo mondo nell'altro, in un modo diverso dall'ordinario ch'è la morte. Vedere la morte è lo stesso che «gustarla» e torna a dire farne la personale esperienza. Cotesto trasferimento, analogo a quello di Elia e tipo della trasfigurazione che subiranno i viventi all'avvenimento di Cristo 1Corinzi 15:51, fu concesso ad Enoc in grazia della sua vita di fede, come segno speciale del divino compiacimento. Ma come si arguisce la fede di Enoc quando il testo della Genesi non ne parla? Ad una simile obiezione risponde l'autore osservando che, prima di mentovare il rapimento di Enoc, la Scrittura attesta ch'egli «era piaciuto a Dio», tradizione greca questa dell'espressione ebraica così pittoresca «era camminato con Dio».

Infatti, prima del [suo] trasferimento, egli ha ricevuto l'attestato di «esser piaciuto a Dio».

6 Ora, soggiunge lo scrittore, senza fede è impossibile di piacergli. Perocchè chi si appressa a Dio deve credere ch'Egli è, e chi egli si mostra il rimuneratore di quelli che lo cercano.

Supporre che un uomo possa «piacere a Dio», o come dice la Genesi di Enoc, «camminare con Dio per lo spazio di trecent'anni», in mezzo ad un mondo alieno dalla pietà, fra le occupazioni ordinarie della vita ed i doveri della famiglia, senza aver fede in Dio, è supporre una cosa logicamente e moralmente impossibile.

L'appressarsi a Dio per adorarlo, per fargli omaggio del nostro essere e della nostra attività, implica fede per lo meno nella sua forma più elementare: fede cioè nell'esistenza, di Dio e nel suo governo morale. Chi si accosta a Dio lo fa perchè lo crede una personalità vivente, potente, onnisciente, capace di scrutare i cuori, di pesare moralmente le azioni e di rendere a ciascuno secondo le sue opere; pronto in ispecie a rimunerare quelli che lo cercano con ardore e con sincerità per conoscerlo, onorarlo e fare la; sua volontà. Il greco dice: «e doventa ( γινεται) rimuneratore a quelli...» cioè si manifesta, si dimostra nell'esplicazione della sua natura e della sua attività morale, il rimuneratore di quei che lo cercano con perseverante sforzo ( εκζητειν).

7 Per fede, Noè divinamente avvertito di quello che ancora non si vedeva, avendo temuto, fabbricò un'arca per la salvezza della sua famiglia; e mediante la sua fede condannò il mondo e divenne erede della giustizia ch'è secondo la fede.

Nell'esempio di Noè, ultimo fra gli uomini dei tempi primitivi, lo scrittore indica anzitutto il fondamento su cui poggiò il suo grande atto di fede, e questo fu l'avvertimento divino relativo al diluvio che stava per venire sulla terra ed al mezzo di scampo ch'egli doveva prepararsi. La parola di Dio è la salda base della fede in tutti i tempi. Viene poi indicato il sentimento prodotto nel suo cuore dalla parola di Dio: avendo temuto ( ευλαβηθεις). Dio annunziava un tremendo giudicio sugli uomini; egli credette a Dio e temette il giudicio ancora invisibile, o, come altri preferisce, fu compreso da un pio timore del Dio che stava per manifestare la sua santità e giustizia. L'atto pratico di ubbidienza in cui si manifestò la fede di Noè fu la costruzione dell'arca destinata alla salvezza sua e dei suoi. «il credente è benedetto da Dio per diventare a sua volta benedizione. La fede di Noè, resa compiuta colle opere, salvò la sua famiglia e colla famiglia la razza» (A. Murray). Da ultimo è indicato il risultato della fede di Noè così rispetto al mondo che lo circondava, come rispetto a lui medesimo. Mediante la sua fede, così tradotta in sentimenti motori ed in atti pratici e visibili di ubbidienza, Noè condannò il mondo, riconobbe apertamente la realtà dell'empietà umana e la giustizia dell'annunziato giudicio di Dio. Si schierò contro alla malvagità, contro alla beffarda incredulità del gran numero (Cf. 2Pietro 2:5), e si pose risolutamente, con tutto il suo modo di agire, dalla parte di Dio e della sua santità. La sua condotta fu una protesta contro al male ed una condanna di esso. Quanto a sè, divenne erede della giustizia ch'è secondo [la] fede. Noè è il primo che sia chiamato giusto nella Scrittura Genesi 6:9. La sua giustizia però è di quella che non è disgiunta, che anzi è indissolubilmente legata alla fede senza la quale non potrebbe esistere. Di Abramo è detto Genesi 15.6 ch'egli «credette all'Eterno, e l'Eterno gl'imputò questo a giustizia». L'autore pare usare un'espressione ben nota ai lettori e che ricorda quelle di Paolo: «giustizia dalla fede, giustizia mediante la fede». È una giustizia religiosa, spirituale, la cui essenza consiste nell'abbandono fiducioso dell'anima alla promessa misericordiosa di Dio. L'uomo è tenuto da Dio per giusto e trattato come tale, in considerazione non di una perfezione morale ch'egli non possiede ancora, ma in considerazione di quella sua fede che contiene in germe la piena santificazione. Di una tale giustizia Noè divenne erede perchè è questo un bene, una condizione spirituale, che gli venne da Dio riconosciuta in conformità di una data norma ( κατα πιστιν).

8 Ebrei 11:8-22. L'Epoca patriarcale.

«La vita degli antenati del popolo eletto, osserva il Delitzsch, fu tutta una vita di speranza contro speranza, il cui presente era in aperto contrasto coll'avvenire promesso. La storia dei patriarchi è perciò, sovra ogni altra, ricca di esempi di fede. La storia di Abramo è un continuo progredire di fede in fede». Era naturale che, essendo Abramo il progenitore degli Ebrei ed il padre dei credenti, l'autore ponesse in risalto la sua fede nei diversi stadii della sua vita. E infatti egli fa notare come per fede Abramo ubbidì alla chiamata di Dio che gli ordinava di uscir dal suo paese; come per fede egli potè, al di là della Canaan terrestre, riguardare a quella celeste, e come per fede accettò il sacrificio d'Isacco chiestogli da Dio quando lo provò. Intorno alla figura dominante del patriarca sono disposte altre figure di minor grandezza spirituale come Sara, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, i quali mostrarono anch'essi di posseder quella fede che è realizzazione presente di cose sperate, dimostrazione delle non apparenti.

Per fede Abramo, essendo chiamato, ubbidì, per andarsene verso un luogo ch'egli dovea ricevere in eredità e partì senza sapere dove andava.

Qualche codice, seguito dalla Vulgata, aggiunge l'articolo ( ὁ καλ.) al participio, e legge: «Colui che fu chiamato Abramo...» Le ragioni interne stanno a favore della lezione ordinaria accettata dai critici e che ricorda il fatto della chiamata di Abramo ad uscir del suo paese e del suo parentado per divenir lo stipite del popolo eletto. Anche qui la comunicazione divina sotto forma di invito e di promessa è il fondamento della fede. La grandezza di cotesta fede in Dio sta nell'ubbidienza assoluta del patriarca. Si trattava di sacrificare i proprii piani per l'avvenire, le proprie preferenze e comodità, la sua patria e le sue relazioni di famiglia, per servire al disegno superiore di Dio, ed Abramo ubbidì. Ubbidì senza sapere dove andava, senza aver dinanzi nulla di visibile, nulla di ben noto in fatto di nuova patria. Dio gli dice «Vieni in un paese che ti mostrerò», ed egli si abbandona alla guida paterna di Dio, «Se, dice Guers, Abramo non sapeva dove andava, egli però sapeva bene con chi andava e questo bastava al padre dei credenti». L'ubbidienza è inseparabile dalla vita della fede. Anche il Cristo imparò l'ubbidienza.

9 Per fede dimorò nel paese della promessa come [in paese] non suo, abitando in tende con Isacco e Giacobbe, i coeredi della medesima promessa.

Qual'è l'aspetto della fede d'Abramo che l'autore vuol qui mettere in luce? Westcott risponde: È la fede della pazienza. Certo vi fu fede paziente nel patriarca quando, saputo che Canaan era la terra promessa Genesi 12:7, egli vi si fissò colle sue gregge e, sebbene il paese fosse occupato dai Cananei ed egli non ne possedesse un palmo Atti 7:5, pure andò peregrinando in esso senza cercar di precorrere i tempi, aspettando che Dio, nel tempo da lui fissato, desse il paese alla sua posterità. In questa fiducia comperò in Canaan la sua tomba di famiglia. Tuttavia non è questo l'aspetto sotto il quale viene qui considerata la fede di Abramo. Anche quand'ebbe veduta cogli occhi la terra promessa, egli non la riguardò come il nec plus ultra delle sue speranze. Un luogo di abitazione terrena, fosse pure un paese stillante latte e miele, e fosse pur stato interamente a sua disposizione, non poteva soddisfare i bisogni più elevati del padre dei credenti. Credette che Cancan sarebbe stanza dei suoi discendenti; ma per se personalmente la promessa divina come veniva illuminandosi sempre meglio dinanzi all'occhio suo spirituale, implicava un riposo al di là del presente, uno stato migliore dell'attuale. La sua fede gli rendeva visibile il compimento finale del regno di Dio sulla terra rinnovellata. In quel guardare avanti, al di là del visibile e dell'imperfetto, all'invisibile ed al perfetto, grandeggia la fede di Abramo. Giunto in Canaan, egli non dubita che quella sia per essere a suo tempo, la patria terrena della sua posterità, ma non la considera come il luogo del vero suo riposo. C'è per lui e per i suoi imitatori, Isacco e Giacobbe, qualcosa di più alto che una benedizione terrestre, in quelle promesse divine: «Io ti benedirò». «Io sono il tuo scudo e la tua grande ricompensa». Aspettando quel qualcosa di meglio, Abramo accetta di buon grado anche in Canaan la vita nomade, in tende mobili e fragili.

10 Egli aspettava infatti la città, che ha i fondamenti, di cui Dio è l'architetto e il costruttore.

Invece di un'abitazione provvisoria e malsicura com'è una tenda od un angolo di terra quaggiù, il patriarca aspettava la città che sarà il luogo d'abitazione, perfetto e definivo, del popolo di Dio. È questa la città per eccellenza, la «città del Dio vivente» Ebrei 12:22, la «città futura» Ebrei 13:14, la città che ha i fondamenti, ch'è fondata in modo da non poter esser mai sovvertita, nè arsa. La Gerusalemme terrestre realizzò in piccola parte l'ideale patriarcale della dimora stabile e sicura del popolo di Dio; ma anche quella non fu che un'ombra fugace ed il sospiro dei salmisti e dei profeti si spinge verso una nuova Gerusalemme (cf. Isaia 60; Ezechiele 40-48). che l'Apocalisse descrive come scendente dal cielo, tutta perfetta Apocalisse 21-22 e di cui ci parla anche Ebrei 12. Di questa Dio è l'architetto e il costruttore, cioè colui ché ne ha ideato il disegno e che ne ha curata l'esecuzione. È questa la miglior garanzia della perfezione di quella città sotto tutti gli aspetti: della solidità, della durata, della bellezza, della rispondenza ai bisogni ed ai sospiri del popolo di Dio.

11 Per fede anche Sara stesa ricevette forze da diventar madre e ciò quand'era già fuor d'età, perchè stimò fedele colui che avea fatta la promessa.

Il testo emendato elimina qui diverse aggiunte portate dal testo ordinario, ma senza mutare il senso. La fede di Sara è mentovata con una dicitura speciale: anche Sara stessa ch'era stata per tanto tempo sterile e che al primo annunzio della sua prossima maternità avea sorriso d'incredulità, anche lei, sebbene avesse oltrepassato ormai l'età utile per aver dei figli, pure per la fede che ebbe nella fedeltà del Dio della promessa, ricevette, in età avanzata, forza da divenir madre, essendole rinnovato il vigore. Le versioni intendono l'espressione greca qui usata nel senso della diodatina: «concepir seme». Diversi interpreti, stando al senso usuale della parola καταβολη nel N.T., intendono: «per la fondazione di una progenie». Per quanto non robusta come quella d'Abramo, la fede di Sara la mise in grado d'esser l'oggetto d'un miracolo della bontà e della potenza divina. «Attraverso i secoli risuona la di lei voce che ripete: Fida in Dio, egli è fedele, egli è l'Iddio vivente, la fonte della vita... Umiliati come chi nè ha nè può nulla... Egli ti dirà: Non temere, Io son colui che vive e che dona la vita» (Murray).

12 Perciò ancora, da un solo; e già, svigorito, è nata una discendenza numerosa come le stelle, del cielo, e come la rena ch'è lungo la spiaggia del mare, la quale è innumerevole.

In grazia della fede di Sara e di Abramo, non solo nacque Isacco, ma si potè adempiere la promessa di Dio riguardo alla numerosissima discendenza del patriarca. Il testo fa notare che anche Abramo era già indebolito dall'età (lett. mortificato) quando gli nacque Isacco il progenitore del popolo eletto.

13 In fede morirono tutti costoro, non avendo ricevute le cose promesse, ma avendole vedute da lontano e salutate ed avendo confessato che erano forestieri e di passaggio sulla terra.

L'autore ha già fatto i nomi di parecchi fra i patriarchi; ciascuno ha mostrato la sua fede nelle vicende particolari della propria vita; ma c'è questo di comune a tutti ch'essi morirono prima di aver veduto cogli occhi del corpo l'adempimento delle ricche promesse a loro fatte. Queste comprendevano il divenir una nazione numerosa, l'aver in Canaan una stanza ove abitare in pace, l'aver Dio per loro Dio e l'essere essi il popolo speciale di Dio, l'essere in benedizione a tutte le famiglie della terra. Quale fosse l'idea esatta che i patriarchi si facevano del contenuto di coteste promesse è difficile il dirlo. Probabilmente, come dice Delitzsch, «l'involucro delle loro speranze era terreno, mentre il nocciolo era celeste e divino» in quanto era fatto consistere nell'abitar finalmente con Dio in comunione intima e perpetua. Di Abramo l'autore ha già detto ch'egli «aspettava la città che ha i fondamenti» e Gesù dice parimenti di Abramo ch'egli giubilò nella speranza di poter vedere il giorno del Messia «e lo vide e si rallegrò». La storia del padre dei credenti ci autorizza ad aver della sua fede il più alto concetto. Ma, cogli occhi della carne, Abramo e gli altri patriarchi videro appena l'avviamento verso le gloriose realtà, promesse. Non disperarono però; che anzi tutti costoro morirono in fede, come si muore quando si ha fede ( κατα πιστιν = secondo fede), ispirati, confortati, illuminati dalla fede. «La fede fu la regola della lor vita fino alla fine, affrontarono la morte come uomini che seguitavano ad afferrar saldamente l'invisibile» (Westc.). il graduale ed anche il finale, più glorioso adempimento, lo contemplarono da lontano coll'occhio della loro fede e lo salutarono giulivi, come l'esule in viaggio verso la patria, saluta da lontano le vette dei suoi monti. Al di là della Canaan terrena, guardavano al riposo nel seno di Dio.

14 Ad ogni modo, quando si riconoscevano forestieri e di passaggio o in soggiorno (cfr. Geremia 23:4; 28:4; Salmi 39:13) sulla terra, il loro sospiro non si volgeva indietro alla patria terrena donde Abramo era uscito - poichè, se fosse stato così vi potevano tornare; ma si portava innanzi verso la patria migliore ove Dio darebbe loro vero riposo.

Perocchè quelli che dicono cotali cose dànno a vedere che cercano una patria. E se si ricordavano di quella ond'erano usciti, avevano tempo da ritornarvi.

16 Ma ora ne bramano una migliore, cioè celeste.

È questa l'unica conclusione che si possa trarre dal modo in cui considerano la loro posizione sulla terra, come pure dai sospiri che escono dai loro petti. Giacobbe morente esclamava: «O Eterno, ho aspettata la tua salute» Genesi 49:19; ed al tempo del suo esilio egli avea contemplato la visione della scala che metteva il cielo in comunicazione costante colla terra. (Cfr. Salmi 73:24).

Perciò, per questa loro aspirazione verso la città di Dio, Dio non si vergogna d'esser chiamato l'Iddio loro; poichè ha lor preparata una città.

Uno dei nomi coi quali Dio si rivela, è infatti questo: «l'Iddio di Abramo, d'Isacco e di Giacobbe», nome che accenna ad una relazione personale e permanente di Dio con loro, come Gesù stesso fece notare ai Sadducei. E questa comunione eterna dei fedeli con Dio, o se vuolsi questa eterna abitazione di Dio con loro si realizzerà nella città perfetta che Dio ha preparata per quelli che riconosce per suoi. Cfr. Apocalisse 21:3-4,27.

17 Per fede Abramo, essendo provato, ha offerto Isacco.

Quasi riparasse ad una dimenticanza, l'autore torna indietro per accennare l'atto supremo di fede compiuto da Abramo quando Dio lo provò. Westcott che ha chiamato fede di abnegazione di sè quella del patriarca quando lascia il suo paese, fede di paziente attesa quella mostrata nel soggiornare in Canaan qual forestiera chiama questa la fede del sacrificio. Tentare e mettere alla prova si esprimono in greco colla stessa parola ( πειραζω). È evidente che, nel caso d'Abramo, si tratta di prova come la chiama Genesi 22, e non di tentazione al male. Materialmente, il sacrificio d'Isacco non fu compiuto; ma siccome lo fu moralmente, lo scrittore può dire che Abramo ha offerto Isacco. La grandezza del sacrificio è messa in rilievo col far notare come il patriarca, offrendo Isacco, non solo dovette far tacere gli affetti naturali più legittimi e più sacri dinanzi all'ordine esplicito dell'Eterno che è la più alta norma del dovere, ma fu chiamato a sacrificar colui che gli era stato dato in adempimento di una promessa divina e nel quale, a sua volta, doveva continuare ad adempiersi la promessa.

18 Ed offerse il [suo] unigenito colui che avevi accolte le promesse, al quale era stato detto: «In Isacco ti sarà nominata progenie».

Isacco era il figlio unico di Sara e di Abramo. Su lui concentravasi l'affetto del padre, non solo, ma su lui concentravnnsi le grandi speranze suscitate dalle promesse divine accolte dal patriarca con allegrezza e con fede. Da Isacco, non da Ismaele, doveva originare quella progenie d'Abramo cui era riservata l'alta missione d'essere in benedizione a tutte le genti. Or quel figlio unico, oggetto di una promessa e condizione dell'adempimento di altre promesse, Dio ordina di sacrificarlo. «In tutto questo, dice Grisostomo, Dio pareva contraddire a Dio, fede essere opposta a fede, e comandamento a promessa». La fede d'Abramo dovette passare per una valle molto oscura, in cui le stelle che avevano guidato la pietà del patriarca parevano tutte spente. La sola che resta è il fatto, non smentito mai da Dio, ch'egli ha fatto la promessa. A questo fatto, alla fedeltà dell'Eterno che non può venir meno, Abramo si appiglia in un supremo sforzo di fede. Dio non può mentire; quindi, in un modo o nell'altro, saprà adempiere la sua promessa. Egli è potente per ridonar anche la vita ad Isacco, come ha ridonato vigore ai suoi genitori.

19 Essendosi fatta questa ragione,

o avendo tenuto conto poichè anche la fede pensa e ragiona e calcola ( λογισαμενος),

che Dio [è] potente anche da risuscitare [uno] dai morti; per cui lo ricoverò anche in un modo somigliante [ad una risurrezione].

Abramo salendo il monte Moria, forse aveva pensato che Dio provvederebbe un sostituto ad Isacco, ma quando fu lasciato legare il figlio sull'altare, la sua fede dovette guardare ad un altro genere d'intervento divino. E pensò che neppure la morte annulla la fedeltà di Dio, perchè non è barriera alla di lui potenza. Dio può risuscitare anche i morti. Ed alla sua fede Dio rispose. Egli non riebbe il suo figlio per via di una vera e propria risurrezione, poichè non era stato ucciso, ma lo riebbe in un modo che si assomiglia, ch'è paragonabile ad una risurrezione, che può chiamarsi tale figurativamente. Il testo dice concisamente che lo ricoverò in similitudine, in parabola; ma il senso più semplice è che lo ricoverò in un modo che, per lui, era come una risurrezione. In cuor suo l'aveva contato morto; e lo scioglierlo dall'altare per riabbracciarlo sano e salvo fu per lui come se Dio glielo avesse restituito dopo averlo risuscitato dai morti. Alcuni preferiscono dare alla particella ὁθεν (per cui) il senso in sè legittimo: di là, che verrebbe a dire: E dai morti lo riebbe in un modo che si assomiglia ad una risurrezione.

20 Per fede Isacco benedisse Giacobbe ed Esaù intorno a cose future.

La benedizione d'Isacco è riferita in Genesi 27:27 e seguenti. Essa concerneva cose future così nel caso di Giacobbe come in quello di Esaù. Riguardo alla sorte dei due gemelli, Isacco avea già ricevuto qualche indicazione per mezzo di Rebecca; ma ne ricevette di maggiori al momento in cui pronunziò la sua benedizione. Per fede nella rivelazione di Dio, egli le contemplò come cose che si adempirebbero con certezza. La sua fede gli fece sormontare la sua naturale predilezione per Esaù e passar sopra la legge ordinaria di successione per piegarsi al disegno di Dio.

21 Per fede Giacobbe morente benedisse ciascuno dei figli di Giuseppe e «adorò [poggiato] sopra la sommità del suo bastone».

Due atti di fede vengono prescelti nella vita di Giacobbe. Il pruno è la benedizione da lui data, quando si avvicinava alla morte, a Efraim e Manasse Genesi 48 figli di Giuseppe. In quest'occasione Giacobbe, riandando il passato, ricorda le promesse da Dio ricevute Genesi 48:3-4 annunziando profeticamente la grande prosperità che avranno, nella terra promessa, i due figli di Giuseppe e di Asenat, adottati come suoi dal patriarca. Il secondo atto di fede qui mentovato e ricordato in Genesi 47:28-31. Sentendo l'avvicinarsi della morte, Giacobbe chiamò Giuseppe e lo fece giurare ch'ei l'avrebbe seppellito in Canaan. Ed ottenuto quel giuramento «adorò, chinato sulla sommità del suo bastone», di quel bastone col quale avea passato solitario il Giordano, fuggendo in Paddan-Aram Genesi 32:10, di quel bastone che gli ricordava tutto un passato di peccato, di miseria, di povertà; ma che gli faceva misurare, in pari tempo, la grandezza delle benedizioni ricevute. L'autore segue la versione dei Settanta, che pare aver letto Genesi 47:31 il testo ebraico punteggiato in modo diverso da quello adottato dai Massoreti quando fissarono più tardi il testo comune. Leggendo hammatteh si ha il significato «del bastone»; mentre leggendo hammittah si ha il senso «del letto» come Genesi 48:2, e l'idea è che Giacobbe, per adorare il suo Dio, si pose in ginocchio sul suo letto curvando la faccia verso il capo di esso. Ad ogni modo, non c'è da ricavare dal testo della LXX la sciocca ed empia nozione che Giacobbe abbia adorato il proprio bastone e neppure, come già notò Girolamo, l'altra idea ch'egli abbia, cioè, adorato il bastone di Giuseppe per rendere omaggio alla podestà di lui. L'interpretazione allegorica (cfr. Martini) secondo la quale Giacobbe avrebbe reso omaggio alla regia podestà di Cristo di cui Giuseppe era il tipo non è meno contraria al testo ed aliena dal contesto.

22 Per fede Giuseppe, morendo, fece menzione dell'uscita dei figli d'Israele e diede ordini intorno alle sue ossa.

Sebbene ricco e potente in Egitto, Giuseppe non dimenticò, più che non avesse fatto suo padre, che l'Egitto non era la terra promessa alla progenie d'Abramo. «il suo sospiro e nella direzione delle divine promesse il cui adempimento gli è reso sicuro dalla fede». Perciò nelle ultime raccomandazioni rivolte ai fratelli egli fa menzione dell'esodo futuro dall'Egitto (cf. Genesi 15:16); e, come testimonianza della sua fede personale, e mezzo di tener vivo in cuore agli Israeliti il ricordo della promessa divina, onde «nè la quiete, nè le tribolazioni facessero loro dimenticare i loro destini» (Westc.), Giuseppe ordina che quando gl'Israeliti usciranno d'Egitto, portino seco le sue ossa per seppellirle nella terra promessa Genesi 50:24-26. Egli dà, le sue disposizioni come se già fossero realtà le cose sperate. E la Scrittura narra che gl'Israeliti eseguirono fedelmente gli ordini del loro benefattore Esodo 13:19; Giosuè 24:32.

23 Ebrei 11:23-40. I tempi dell'Economia legale.

«La fede ch'è stata finora contemplata sotto la disciplina della pazienza e del sacrificio, è ora considerata nell'azione» (Westcott). Passando in rassegna l'epoca patriarcale, l'autore si è fermato particolarmente sulla vita di Abramo ed ora, sul punto di gettare uno sguardo sui tempi dell'economia legale, egli si ferma più a lungo sopra Mosè, il liberatore ed il legislatore d'Israele. Anzi, prima di lui, cita quale esempio di fede i suoi genitori.

Per fede Mosè, quando fu noto, fu nascosto per tre mesi dai suoi genitori, perchè vedevano il fanciullino bello; e non temettero l'ordine del re.

Il greco πατερες che vale propriamente i padri non può avere qui altro senso che quello più largo - e giustificato da esempi classici, di genitori. Il testo Ebraico non fa parola che della madre; ma la LXX in Esodo 2:2 dice: «E vedendolo bello, essi lo nascosero tre mesi; ma poichè non potevano tenerlo più oltre nascosto, la sua madre lo prese ecc.». Anche in Atti 7:20 Stefano ricorda la bellezza di Mosè dicendolo «bello innanzi a Dio». Il testo fa supporre che codesta - straordinaria bellezza del fanciullo fosse per i genitori un invito a non lasciar distruggere un si bel dono di Dio, facendo forse nascere in loro il presentimento di una qualche alta missione riservata al bambino. E questo, unito all'amore materno e paterno, li spinse a tener nascosto il fanciullo finchè lo poterono, pur sapendo di esporsi all'ira del re, ma avendo più fede in Dio che paura degli ordini del tiranno. La stessa, fede li guida quando, costretti dalla necessità, espongono il fanciullo sul Nilo in una cesta di giunchi, nel luogo e nell'ora in cui la figliuola di Faraone veniva a fare il bagno, ponendo a guardia del piccino la sua sorella maggiore. Fino all'ultimo, aspettano un intervento provvidenziale.

24 Proseguendo, l'autore sceglie nella vita di Mosè gli esempi di fede ch'erano meglio atti a servire di avvertimento e d'incoraggiamento ai lettori dell'Epistola. E primo fra tutti, viene quello che si potrebbe chiamar il «gran rifiuto» di Mosè.

Per fede Mosè, diventato grande,

la tradizione parlava del quarantesimo anno dell'età sua Atti 7:23, ma l'Esodo non fissa nulla,

ricusò d'esser chiamato figlio della figlia di Faraone, scegliendo piuttosto d'esser maltrattato insieme col popolo di Dio che di avere un breve godimento di peccato.

Tale il significato morale e spirituale che lo scrittore scorge nel primo atto di Mosè narratoci dall'Esodo. Nella posizione elevata ch'egli occupava qual principe adottivo della real casa egizia, con davanti a se una, vita di godimenti e di splendori, il non aver rinnegato nè dimenticato il suo popolo, l'averlo considerato, nonostante il suo misero stato; come il popolo scelto da, Dio ad un'alta missione, l'aver lasciata la corte per visitare questo popolo, per mostrargli ch'egli era disposto a prender in mano la sua causa anche ponendo a repentaglio la propria posizione, tutto questo dinota che s'era compiuto in lui un lavorio interno risultato in una grande decisione morale. La fede inculcata a Mosè dalla sua madre, fede che ha per oggetto le promesse di Dio a favore del popolo da lui scelto per adempiere un alto disegno di redenzione universale, questa fede trionfò in lui degli allettamenti mondani connessi colla sua posizione. Preferisce dividere la sorte, anche se tribolata, del popolo di Dio, ai godimenti passeggeri, di breve durata, che avrebbe potuto avere rinnegando il suo popolo ed il suo Dio, facendo causa comune cogli oppressori d'Israele. Sentì che un tale godimento peccaminoso, non era da paragonare alle benedizioni che Dio promette ai suoi e ch'egli in fede contemplava.

26 Avendo stimato ricchezza maggiore dei tesori d'Egitto l'obbrobrio di Cristo; perocchè egli riguardava alla rimunerazione.

Avrebbe potuto godere degli onori e dei piaceri che le brandi ricchezze di un principe egizio erano in grado di procurargli; ma preferì dividere l'obbrobrio di Cristo, perchè esso è la via per la quale si giunge alla vera ricchezza, alla eterna rimunerazione. Come si ha da intendere «l'obbrobrio di Cristo» in relazione con la vita di Mosè? Obbrobrio di Cristo non è soltanto quello che Cristo ha dovuto sopportare per parte dei Giudei (Cf. Ebrei 12:1-4); ma è quello ancora che ad imitazione di lui e per cagion di lui deve indurare il popolo di Dio. In Ebrei 13:13 dirà: «Usciamo adunque verso lui, fuor del campo, portando il suo obbrobrio». L'autore si serve di una locuzione moderna, cristiana, per designare una esperienza comune al popolo di Dio di tutti i tempi, e lo fa a bella posta onde i lettori possano più facilmente scorgere ed appropriarsi la lezione contenuta nell'esempio di Mosè. E tanto meglio poteva adoprare una tale espressione, ch'egli considera Ebrei 3:3. Il Cristo preesistente come colui che presiede alle sorti del popolo di Dio, che ha «preparata la casa di Dio» anche sotto l'antica economia. Perciò, come nota il Weiss, ogni maltrattamento inflitto al popolo nel quale doveva compiersi la salvazione, può considerarsi come fatto all'autore stesso della salvazione. Notevole il verbo αφοραν usato qui come in Ebrei 12:2 e che contiene la duplice idea del distogliere lo sguardo da un oggetto ( απο) per fissarlo sopra un altro. Mosè distolse il suo dalle tribolazioni presenti, per fissarlo sopra la rimunerazione, sull'avvenire glorioso di santità, di pace, di felicità, assicurato dalle promesse di Dio. L'occhio della fede contempla come fossero già realtà le cose che la parola di Dio garantisce. Per essa il credente può misurare il valore reale delle cose e prendere quelle supreme risoluzioni che decidono della sorte di una esistenza.

27 Per fede abbandonò l'Egitto, senza temere l'ira del re; perocchè stette saldo come vedesse colui ch'è invisibile.

Dopo l'abbandono della corte egizia, è mentovato come atto di fede l'esilio volontario cui si condannò Mosè quando abbandonò l'Egitto per vivere nel deserto di Madian come semplice pastore. Varii interpreti hanno creduto che l'autore alludesse con questa frase all'esodo israelitico. Ma, quando il popolo lasciò l'Egitto; fu il re stesso che, spaventato, ve lo spinse. Poi qui si parla di Mosè soltanto e la, pasqua che precedette l'esodo è mentovata al vers. seguente. I più scorgono qui un'allusione alla fuga di Mosè dopo l'uccisione dell'egizio narrata in Esodo 2:11-15. Ma come spiegare allora l'inciso «senza temere l'ira del re», mentre si legge nell'Esodo che Mosè «temette» quando seppe che l'atto suo erasi divulgato? Il timore mentovato dall'Esodo si può considerare come indizio in Mosè della chiara coscienza del pericolo in cui veniva a trovarsi, e infatti Faraone cercò di lui per farlo morire. Ma questa coscienza del pericolo può sussistere insieme ad una piena fiducia nel Dio onnipotente ed invisibile che guarda e protegge la vita dei suoi servi finchè non sia compiuta l'opera a loro destinata. Ed è appunto la fiducia in Dio mostrata da Mosè allorchè si trovò posto tra, l'indifferenza cieca dei suoi e la collera del Faraone, che l'autore vuol mettere qui in evidenza. Egli non tornò alla corte per umiliarsi ed implorar perdono: ma lasciò l'Egitto rendendo così completa e definitiva la sua rottura col mondo pagano e la sua solidarietà col popolo di Dio. Mosè non fugge come chi ha perduta ogni speranza, ma come chi, fidando nella protezione e nella sapienza dell'invisibile Iddio, aspetta tempi migliori. E infatti, quando l'esperienza di una vita di fatiche e la solitaria comunione con Dio l'avranno meglio preparato all'opera, ritornerà in Egitto per non uscirne più che alla testa del popolo. Ora egli abbandona l'Egitto, ma senza paventare per la vita sua l'ira presente o futura del potente Faraone. E la, ragione per cui «non teme ciò che gli può far l'uomo» sta nella sua fede costante. Il verbo καρτερεω (star saldo, costante) racchiude l'idea di forza d'animo manifestata nel sopportar con pazienza le privazioni o le difficoltà. Qui si applica alla costanza d'animo, con cui Mosè, facendo astrazione dal triste presente, perseverò nel tener fisso lo sguardo della fede nell'invisibile Iddio.

28 Per fede fece la Pasqua e l'aspersione del sangue, affinchè colui che facea perire i primogeniti, non li toccasse loro.

La celebrazione della Pasqua mangiata in piedi, coi lombi cinti, col bastone in mano, era atto di fede nella promessa liberazione che doveva, effettuarsi in quella notte per effetto dello spavento cagionato dalla piaga che colpiva i primogeniti. L'aspersione del sangue da spruzzarsi sugli stipiti e sul limitare superiore delle porte era atto di fede nella parola di Dio che pronunziava la sentenza di morte sul primogenito di ogni famiglia israelitica sulla quale non fosse trovato il segno del sangue. «Non li toccasse» s'intende degli Ebrei.

29 Per fede attraversarono il mar Rosso come fosse terra asciutta, il che avendo gli Egizii tentato di fare, furono inghiottiti.

È usato qui il plurale perchè Mosè non è più solo, ma lo segue tutto il popolo. La fede si manifesta qui nell'ubbidire all'ordine di Dio avanzandosi sul tratto di mare asciugato dal vento senza temere d'essere inghiottiti dal ritornare delle acque, fidando invece nella potente e benigna protezione di Dio, assicurata al suo popolo. Gli Egizii che tentano di entrare per la stessa via senza essere all'ombra della stessa promessa restano sommersi dalle onde che si ricongiungono. Il greco porta lett. della quale [terra asciutta], o meglio del quale [mare] avendo fatto la prova...».

30 Per fede caddero le mura di Gerico dopo che, per sette giorni, ne fu fatto il giro.

Sorvolando alla vita degli Israeliti nel deserto, lo scrittore cita due esempi tolti dall'epoca della conquista, quando il popolo condotto da Giosuè, passato ch'ebbe il Giordano, si trovò di fronte alla città forte di Gerico. Le mura di questa città caddero non per la forza di macchine da guerra che mancavano agli Israeliti, ma per la forza della fede che afferrò le promesse del Dio onnipotente cui non difettano mezzi per far crollare le mura, di una città.

31 Per fede Raab la meretrice non perì coi ribelli, avendo accolto le spie amichevolmente.

In relazione colla presa di Gerico è ricordato l'esempio di fede dato da una donna pagana che, avendo udito parlare di quel che Geova, avea fatto a pro degli Israeliti, vide in quei fatti la, prova certa che Geova è il vero Dio e ne dedusse la persuasione che il resistergli era un andare incontro a certa rovina. Quindi accolse, non già come nemici, ma come amici ed alleati (il greco dice lett. in pace) gl'Israeliti mandati a spiare la città. Ella ebbe perciò salva la vita, mentre gli abitanti di Gerico che si erano indurati nella, resistenza all'Eterno, pur avendo avuto anch'essi conoscenza delle opere di Dio, perirono. Il senso del verbo απειθεω oscilla tra il «non credere» e il «non ubbidire». Indica la disubbidienza del cuore che ricusa di lasciarsi persuadere dalla parola di Dio, e ricusa poi di agire perchè non crede. Siccome, per indicare l'incredulità, l'autore adopera un altro verbo ( απιστειν), va preferito qui il senso «essere disubbidiente» «ribelle». Quanto all'appellativo di meretrice (nè il greco, nè l'ebraico zonah possono avere altro senso) esso vien conservato a Raab, come osserva il Delitzsch, «per glorificare quella grazia mediante la quale fu redenta e potè perfino prender posto fra gli antenati del Signore e Salvatore». «L'elenco dei campioni della fede, le cui vittorie sono specialmente segnalate, si chiude col nome di una donna, di una pagana, di una perduta. In questo fatto è adombrata in modo significante l'essenziale universalità della fede» (Westcott).

32 Giunto al principio del periodo della conquista, l'autore sente che sarebbe troppo lungo il continuare la sua rassegna, seguendo la storia del popolo di Dio nei periodi susseguenti. Perciò s'interrompe, e riassume in un cenno finale alcuni dei più spiccati trionfi della fede negli antichi.

E che dirò io di più?

Quali esempi addurrò io ancora fra i tanti e tanti che potrei citare?

Poichè mi verrebbe meno il tempo se narrassi di Gedeone, di Barac, di Samson, di Iefte, di Davide e di Samuele e dei profeti.

L'autore adopera qui una forma oratoria frequente nei classici, per significare che troppo lungo sarebbe il proseguire l'enumerazione dettagliata degli esempi di fede che la storia gli fornisce. I personaggi nominati non lo sono secondo lo stretto ordine cronologico, ma i giudici, i re ed i profeti con a capo Samuele offrono, al certo, numerosi tipi di credenti degni di imitazione.

33 I trionfi riportati dalla fede degli antichi sono nel v. 33 e seguenti accumulati in modo così rapido e conciso che non sempre riesce chiara l'allusione che l'autore ha in mente e molte volte uno stesso atto eroico può riferirsi a molti personaggi.

I quali per mezzo della fede vinsero dei regni

lett. pugnarono contro ma in modo - da vincerli e sottometterli, come fecero ad es. Mosè, Giosuè, varii Giudici - e Davide.

operarono giustizia

sia col conformare a giustizia la loro vita individuale, sia coll'amministrare fedelmente la giustizia al popolo quando furono chiamati a reggerlo. Nei due casi la fede fu l'anima d'una vita giusta. Per esemp. in Samuele.

videro adempiute delle promesse

lett. «conseguirono» ossia ottennero l'adempimento di promesse speciali a loro fatte, come ad esemp. Manoa, Gedeone, Davide, ecc. Non si tratta della promessa per eccellenza di cui in Ebrei 11:39.

turarono gole di leoni,

come si narra di Samson Giudici 14:6, di Davide 1Samuele 17:34, di Daniele Daniele 6:16.

34 spensero forza di fuoco

come i tre giovani gettati nella fornace Daniele 3 per ordine di Nebucadnezar.

sfuggirono al taglio della spada

come Davide le molte volte, Elia perseguitato 1Re 19, Eliseo 2Re 6 e tanti altri che scamparono alla morte per la spada.

guarirono di malattie

come ad es. Ezechia quando ebbe pregato Isaia 38.

divennero forti in guerra

come Giosuè, i Giudici, Davide coi suoi prodi, i Maccabei.

misero in fuga eserciti stranieri.

Il termine παρεμβολη si adopera a significare un accampamento Ebrei 13:11,13; Apocalisse 20:9 od ancora, un luogo fortificato Atti 21:34 e seg. od in senso più generale un esercito in ordine di battaglia. L'autore può alludere alle vittorie dei Giudici sugli invasori Madianiti o Cananei o Ammoniti o Filistei; a quelle di Davide o di Giosafat od anche alle gesta di Giuda Maccabeo.

35 Le donne ricuperarono per risurrezione i loro morti;

allusione alla vedova di Sarepta ed alla Sunamita 1Re 17:17 e segg. 2Re 4:18 e segg.

Altri furono martoriati, non avendo accettata, la liberazione, affin di ottenere una risurrezione migliore.

Incomincia qui una serie di eroismi d'altro genere prodotti dalla fede: gli eroismi non tanto del fare quanto del soffrire. Lett. il testo dice «furon sottoposti al timpano» ch'era uno strumento di tortura analogo alla ruota su cui distendevansi le vittime per flagellarle o bastonarle anche a morte. Lo si trova nominato nel 2Maccabei 6:19 - e nel 2Maccabei 7 è mentovata la ruota ( τροχος) che servì al martirio dei sette fratelli colla loro madre. A costoro come al nonagenario Eleazar (ibid. cap.6.) venne offerta la liberazione a condizione che facessero atto d'apostasia mangiando carne di maiale; ma essi ricusarono di rinnegar la legge del loro Dio e morirono nella speranza di una gloriosa risurrezione. «Il re del mondo, esclama il secondo dei fratelli, quando saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà chiamandoci a una nuova ed eterna vita» 2Maccabei 7:9,29 e cfr. Daniele 12:2. Questa risurrezione è chiamata, migliore in confronto di quella ottenuta pei loro figli dalle donne or ora mentovate.

36 Altri ancora dovettero provare scherni e flagelli ed anche legami e prigione.

Per la malvagità umana dovettero fare l'esperienza di scherni ossia di beffe crudeli, rivolte a chi soffre. La parola è adoperata per indicare gli scherni rivolti a Gesù nel pretorio e sulla croce Luca 22:63; Matteo 27:29,31,41. Di scherni e di flagelli si parla nei Maccabei in relazione colla persecuzione di Antioco Epifane. Di legami e di carcere si parla anche più spesso. Es. Michea d'Imla 2Re 21, Geremia ecc. Di queste prove li rese vittoriosi la loro fede.

37 Furon lapidati, furon arsi sul rogo, furon segati, morirono uccisi dalla spada.

Zaccaria figlio di Joiada fu lapidato dal popolo per ordine di Gioas 2Cronache 24:20-22 e così fu Naboth per ordine di Gesabele. La lapidazione era supplizio in uso presso gli Ebrei e una tradizione riferisce che Geremia fu da loro lapidato a Dafne in Egitto, come pure Ezechiele in Babilonia. Per il verbo che segue, il testo è molto incerto. Il cod. D legge due volte επιρασθησαν; i codd. alef e L seguiti da Tischendorf e Nestle leggono επειρασθησαν, επρισθησαν (furon tentati, furon segati) mentre i codd. A E K seguiti da Lachmann e da Tregelles portano l'ordine inverso ch'è quello del textus receptus (furon segati, furon tentati); alcune versioni antiche omettono il «furon tentati». Queste variazioni si spiegano colla rassomiglianza dei due verbi e colla confusione derivante dalla pronunzia itacista che rende con suono quasi identico il dittongo ει e le vocali ι, η, υ. Se si ritiene come autentico l' επειρασθησαν (furon tentati) delle edizioni Tischendorf e Nestle, riesce difficilissimo lo spiegare come nel corso di una, enumerazione di varii generi di morte subiti dai martiri antichi, uno scrittore come il nostro introduca una parola che accenna a una semplice tentazione o prova. Il dare al verbo il senso inusitato di messi alla tortura non poggia su alcun dato linguistico attendibile. Due congetture, che dànno un senso identico, s'impongono all'attenzione dell'interprete: che cioè l'autore abbia scritto επρησθφσαν (furono arsi) come portano alcuni minuscoli, ovvero επυρασθησαν (furono arsi sul rogo) che avrebbe, nella pronunzia itacista, un suono identico alla lezione Tischendorfiana. L'evidenza interna ci costringe ad adottare questo testo congetturale, tanto più che nel 2Maccabei 7 è fatta menzione del supplizio per il fuoco. Nel furon segati si vuol vedere un'allusione al supplizio sofferto da Isaia che secondo la tradizione sarebbe stato segato in un tronco d'albero per ordine del re Manasse. (Cf. 2Samuele 12:31; 1Cronache 20:3). Il morir per la spada può riferirsi ad Uria profeta fatto uccidere da Iojakim Geremia 26:23, ai molti profeti del regno nordico fatti uccidere da Acab 1Re 19:10 od anche a morti di questo genere al tempo dei Maccabei.

andarono attorno in pelli di pecore e di capre,

vestiti miseramente perchè non potevano procurarsi altri indumenti, costretti com'erano ad errare nei monti e nei luoghi deserti

mancanti [di tutto], afflitti

dalle privazioni corporali, e più ancora per cause morali quali la separazione dai loro cari o la morte di essi, o le malattie

maltrattati

così in via legale come in via privata.

38 dei quali non era degno il mondo.

Il mondo che li riduceva in quello stato miserando quasi fossero indegni della sua società, era invece, stando alla realtà come appare agli occhi di Dio, indegno di possederli, tanto essi erano moralmente superiori ad esso

erranti per deserti e monti e spelonche e per le grotte della terra

costretti dalla persecuzione a menare vita errante, instabile, nei luoghi meno abitati o a rifugiarsi per trovar riparo dalle intemperie o dall'accanimento dei nemici fino nelle più profonde caverne o nelle grotte meno ampie delle roccie. La Palestina abbonda di grotte grandi e piccole e la, Scrittura parla di un centinaio di profeti nascosti in due ampie caverne da Abdia, ai tempi di Acab. Elia si nascose in simil modo presso al torrente Kerith e al monte Horeb 1Re 17:3; 18:13; 19:9; ed anche al tempo dei Maccabei le grotte servirono spesso di rifugio ai perseguitati 1Maccabei 2:28; 2Maccabei 5:27.

39 E tutti costoro, pur avendo ricevuta, buona testimonianza per mezzo della fede, non ottennero la promessa, perchè Iddio aveva in vista qualcosa di meglio riguardo a noi, ond'essi non giungessero senza di noi al compimento.

Come in Ebrei 11:2 si ha da intendere, sebbene il testo letteralmente non lo dica, che la testimonianza ottenuta dai fedeli antichi per via della fede da loro mostrata, è una buona testimonianza, il cui documento autentico sta nelle Scritture. Ciononostante, come già l'autore ha fatto notare per i patriarchi, i fedeli dell'antico Patto non hanno potuto, durante la lor vita terrena, contemplar l'adempimento della promessa divina per eccellenza, della promessa della «perfezione», della piena «salvazione», della «eterna eredità» il cui Mediatore è il Messia, la speranza d'Israele. (Cfr. Ebrei 10:36; 11:13; 9:15; 12:23; 9:28). L'hanno potuta soltanto salutare da lontano, perchè non erano ancora maturi i tempi determinati dal consiglio di Dio per l'avvento del Messia.

40 La «fine dei giorni», l'aurora dell'era messianica, i lettori della lettera hanno essi avuto il privilegio di contemplarla. A quest'epoca era riservato il «compimento»: la rivelazione perfetta e finale, il sacerdozio eterno, il sacrificio perfetto, la libera entrata nel santuario, i privilegi tutti del Nuovo Patto. Questo è il qualcosa di meglio ( κρειττον τι) che Dio aveva in vista, che aveva in mente e voleva provvedere, per l'ultima epoca della storia. E dice riguardo a noi o per noi, intendendo i credenti che viverebbero nel periodo finale precedente l'avvenimento glorioso di Cristo. Il compimento della salvazione è stato riservato per la «fine dei giorni», non solo per dar luogo al lento svolgersi delle epoche di necessaria preparazione, ma perchè la salvazione potesse estendere i suoi beneficii sul più gran numero di uomini possibile. Se la salvazione, viene a dir l'autore, fosse venuta prima, siccome salvazione messianica e fine prossima del mondo sono cose connesse, gli antichi sarebbero giunti al compimento senza di noi; noi non avremmo potuto aver parte alla salvazione perchè non saremmo neanche venuti all'esistenza. Il mondo avrebbe terminata la sua storia senza di noi. Invece, per la bontà sapiente di Dio, noi non siamo esclusi dal suo regno a meno che ci escludiamo volontariamente col ritirarci indietro. Dio ha fatto prender pazienza alle passate generazioni, pur così ricche di fede, fino a che fossero giunti sulla scena del mondo anche gli uomini dell'epoca finale, affinchè del banchetto di Dio godesse insieme tutta la grande famiglia dei riscattati. Un pensiero analogo svolge l'apostolo Paolo nella 2Tessalonicesi mostrando come i cristiani morti prima della seconda venuta di Cristo avranno al pari dei cristiani allora viventi il privilegio di salutare, quali figli della risurrezione, il loro Signore. Come c'era in questo consolazione per i Tessalonicesi che piangevano i loro morti, così c'era per i cristiani Ebrei un incoraggiamento a perseverare ancora per un breve tempo, nel pensiero che i loro antenati avevano pazientato così a lungo prima di giungere alla perfezione.

Ammaestramenti

1. «Tutte le cose scritte anticamente, sono state scritte per nostro ammaestramento...» Romani 15:4. Indi il dovere che abbiamo d'investigare le Scritture - così nelle parti storiche come nelle parti morali e dottrinali. Quale ricchezza ed efficacia d'insegnamenti l'autore non sa egli trarre dalla storia biblica, per i suoi lettori? L'Antico Test. non è egli troppo negletto dai cristiani? Oltrechè dai fatti consegnati nella Scrittura, l'insegnante cristiano ed in genere ogni fedele ha dinanzi a sè i tesori di ammaestramenti contenuti nella storia del popolo di Dio di tutti i tempi, non esclusi i nostri in cui, ad esempio, la storia delle Missioni offre delle pagine così sublimi ed edificanti. L'autore dell'Epistola non appartiene alla categoria dei cristiani ultrasentimentali che vorrebbero sepolte nell'oblio le persecuzioni, le torture, i martirii sofferti dagli eroi della fede nel passato. Egli invece li rievoca dinanzi agli occhi dei lettori onde incuorarli a perseveranza di fede e di pazienza.

2. La fede di cui vediamo qui celebrata la potenza vittoriosa, la fede che rende reali le cose sperate e visibili le invisibili, ha bisogno di poggiare sopra un saldo fondamento.

Le nostre o le altrui opinioni, l'opinione o la credenza delle moltitudini, le dottrine ecclesiastiche, tutto ciò non è fondamento abbastanza saldo. Solo la parola di Dio comunicata alla mente ed alla coscienza può dare alla fede una base sicura, una certezza irremovibile, e tale è stata la base della fede che manifestò la sua potenza in quegli svariati modi che il nostro capitolo ricorda. Essa poggia sempre sulla rivelazione divina bene accertata e quindi può darci la chiave sicura dell'origine delle cose, può fare i credenti capaci di rendere a Dio un culto ed un servizio accettevole, di guardare al di là del presente che fugge, di prendere le più eroiche e salutari decisioni, di compiere le gesta più gloriose e benefiche, di imporsi i più grandi rinunziamenti, di accettare i più dolorosi sacrifizii, di ottenere miracolosi esaudimenti, di sopportare con pazienza le massime privazioni, i tormenti ed i supplizi più crudeli.

3. Mentre passiamo dinanzi ai quadri ov'è ricordata la potenza della fede degli antichi, non possiamo a meno di chiedere a noi stessi che pur viviamo nei tempi della nuova alleanza, quali effetti pratici abbia prodotto la nostra, fede individuale nelle varie circostanze della vita finora attraversate. Ci ha essa fatti camminar con Dio, o fatti capaci di schierarci apertamente contro il peccato ch'è nel mondo? Ci ha essa resi ubbidienti alla chiamata di Dio anche quando non sappiam bene vedere dove Egli ci conduce? Ci ha ella resi capaci di accettare la separazione dai nostri cari, il rinunziamento ai piaceri od alla prosperità quando siano macchiati di peccato? Ci ha ella «resi forti e volonterosi per ogni cosa, per l'azione e per la sofferenza, per la vittoria e per la sconfitta, per la vita e per la morte?» Dal frutto si conosce l'albero. Signore, accrescici la fede.

4. Henry osserva che la fede è sempre, sotto le varie economie, la caratteristica degli uomini pii, l'anima della loro vita. Essa è all'anima quel che i sensi sono al corpo. Riguardo a Enoch nota che chi cerca Dio sinceramente e diligentemente è ricompensato con una maggior conoscenza di lui e con una più intima comunione con lui. Riguardo ad Abramo: che c'è nella fede una ignoranza necessaria; Abramo chiamato partì senza sapere esattamente dove andava. Ogni fiducia implica un abbandono giustificato dalla conoscenza e dall'esperienza che abbiamo del carattere delle persone. Se non conosciam la via, ci basta conoscer la guida. I patriarchi erano pellegrini nel mondo e lo confessavano. Chi aspetta molto dal mondo sarà deluso; ma chi aspetta molto da Dio non è confuso. Giuseppe vuole che anche le sue disposizioni testamentari attestino ai posteri la sua fede nella promessa di Dio. Mosè ci mostra come la fede sia un gran preservativo contro il timor servile degli uomini. Il peccato principia bensì col piacere, ma finisce colla calamità e colla morte. C'è più male nel minimo peccato che non nella massima sofferenza.

Grandi benedizioni temporali e spirituali, grandi esaudimenti, alti privilegi, non esentano dalle prove; anzi le rendon necessarie per l'educazione compiuta dei figli di Dio.

Ogni prova, osserva A. Murray, mette in esercizio la fede. Nella prova abbiamo una opportunità di glorificare Dio e Dio ha l'occasione di mostrarci quanto egli sia fedele e quanto sappia e possa fare per un suo figlio.

Gli antichi Israeliti mostrarono la potenza della fede nell'operare e nel soffrire per il bene del loro popolo. Il campo per noi è il mondo e quale opera resta da compiersi in esso! Fra i cristiani e fra i pagani, nelle missioni, nella chiesa e nella scuola, nella lotta contro l'ignoranza e l'errore, contro il vizio e contro la mondanità sotto ogni forma, qual campo agli eroi della fede per conquistar dei regni, per operar giustizia, per ottener l'adempimento delle promesse! Ma ricordiamolo, non c'è fede che non abbia difficoltà da vincere - e non c'è difficoltà che la fede non possa sormontare.

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