Commentario abbreviato:

1Corinzi 11

1 Capitolo 11

L'apostolo, dopo un'esortazione a seguirlo 1Cor 11:1

corregge alcuni abusi 1Cor 11:2-16

Anche le contese, le divisioni e le celebrazioni disordinate della cena del Signore 1Cor 11:17-22

Egli ricorda loro la natura e il disegno della sua istituzione 1Cor 11:23-26

E indica come occuparsene in modo appropriato 1Cor 11:27-34

Versetto 1

Il primo versetto di questo capitolo sembra propriamente la chiusura dell'ultimo. L'apostolo non solo predicava la dottrina che essi dovevano credere, ma conduceva la vita che essi dovevano vivere. Tuttavia, essendo Cristo il nostro esempio perfetto, le azioni e la condotta degli uomini, così come sono descritte nelle Scritture, dovrebbero essere seguite solo nella misura in cui sono simili alle sue.

2 Versetti 2-16

Qui iniziano i dettagli relativi alle assemblee pubbliche, 1Cor 14. Nell'abbondanza di doni spirituali elargiti ai Corinzi, si erano insinuati alcuni abusi; ma come Cristo fece la volontà e cercò l'onore di Dio, così il cristiano deve dichiarare la sua sottomissione a Cristo, facendo la sua volontà e cercando la sua gloria. Anche nel vestire e nell'abbigliamento dovremmo evitare tutto ciò che può disonorare Cristo. La donna è stata sottomessa all'uomo, perché fatta per aiutarlo e confortarlo. E non deve fare nulla, nelle assemblee cristiane, che assomigli a una pretesa di parità. Dovrebbe avere "potere", cioè un velo, sul capo, a causa degli angeli. La loro presenza dovrebbe tenere lontani i cristiani da tutto ciò che è sbagliato durante l'adorazione di Dio. Tuttavia, l'uomo e la donna sono fatti l'uno per l'altra. Dovevano essere un conforto e una benedizione reciproca, non uno schiavo e l'altro tiranno. Dio ha regolato le cose, sia nel regno della provvidenza che in quello della grazia, in modo tale che l'autorità e la sottomissione di ciascuna parte siano di reciproco aiuto e beneficio. Era uso comune delle chiese che le donne si presentassero alle assemblee pubbliche e partecipassero al culto pubblico velate; ed era giusto che lo facessero. La religione cristiana approva le usanze nazionali laddove queste non siano contrarie ai grandi principi di verità e santità; le singolarità interessate non ricevono alcuna approvazione dalla Bibbia.

17 Versetti 17-22

L'apostolo rimprovera i disordini nella partecipazione alla cena del Signore. Le ordinanze di Cristo, se non ci rendono migliori, possono peggiorare. Se l'uso che se ne fa non ripara, indurisce. Dopo essersi riuniti, caddero in divisioni, scismi. I cristiani possono separarsi dalla comunione, ma essere caritatevoli l'uno verso l'altro; possono continuare nella stessa comunione, ma non essere caritatevoli. Quest'ultimo è uno scisma, più che il primo. C'è un consumo disattento e irregolare della Cena del Signore, che aumenta la colpa. Molti ricchi corinzi sembrano essersi comportati molto male alla tavola del Signore o alle feste d'amore, che si svolgevano contemporaneamente alla cena. I ricchi disprezzavano i poveri e mangiavano e bevevano le provviste che portavano, prima che i poveri potessero prenderne parte; così alcuni mancavano, mentre altri avevano più che a sufficienza. Quello che avrebbe dovuto essere un legame di amore e affetto reciproco, fu reso uno strumento di discordia e disunione. Dobbiamo fare attenzione che nulla nel nostro comportamento alla tavola del Signore sembri mettere in ombra questa sacra istituzione. La cena del Signore non è oggi un'occasione per fare baldoria o per mangiare, ma non è forse spesso il sostegno di un orgoglio presuntuoso o un mantello per l'ipocrisia? Non dobbiamo mai fermarci alle forme esteriori del culto, ma guardare al nostro cuore.

23 Versetti 23-34

L'apostolo descrive la sacra ordinanza, di cui ha avuto conoscenza per rivelazione da Cristo. I segni visibili sono il pane e il vino. Ciò che viene mangiato è chiamato pane, anche se allo stesso tempo si dice che è il corpo del Signore, mostrando chiaramente che l'apostolo non intendeva dire che il pane era cambiato in carne. San Matteo ci dice che il Signore disse a tutti di bere il calice, Mt 26:27, come se con questa espressione volesse evitare che qualche credente fosse privato del calice. Le cose significate da questi segni esteriori sono il corpo e il sangue di Cristo, il suo corpo spezzato, il suo sangue versato, insieme a tutti i benefici che derivano dalla sua morte e dal suo sacrificio. Le azioni del nostro Salvatore erano: prendere il pane e il calice, rendere grazie, spezzare il pane e dare sia l'uno che l'altro. Le azioni dei comunicanti erano: prendere il pane e mangiare, prendere il calice e bere, e fare entrambe le cose in memoria di Cristo. Ma gli atti esteriori non sono la totalità, o la parte principale, di ciò che si deve fare in questa sacra ordinanza. Coloro che vi partecipano devono prenderlo come Signore e Vita, abbandonarsi a Lui e vivere di Lui. Ecco un resoconto dei fini di questa ordinanza. Deve essere fatta in ricordo di Cristo, per mantenere fresca nella nostra mente la sua morte per noi, così come per ricordare Cristo che ci supplica, in virtù della sua morte, alla destra di Dio. Non si tratta semplicemente di ricordare Cristo, ciò che ha fatto e sofferto, ma di celebrare la sua grazia nella nostra redenzione. Dichiariamo che la sua morte è la nostra vita, la sorgente di tutte le nostre consolazioni e speranze. E ci gloriamo di tale dichiarazione; mostriamo la sua morte e la invochiamo come sacrificio e riscatto accettato. La cena del Signore non è un'ordinanza da osservare solo per un periodo di tempo, ma da continuare. L'apostolo mette davanti ai Corinzi il pericolo di riceverla con un'indole inadatta; o di mantenere l'alleanza con il peccato e la morte, mentre si professa di rinnovare e confermare l'alleanza con Dio. Senza dubbio questi incorrono in una grande colpa, rendendosi così passibili di giudizi spirituali. Ma i credenti timorosi non dovrebbero essere scoraggiati dal partecipare a questa sacra ordinanza. Lo Spirito Santo non ha mai fatto scrivere questa Scrittura per dissuadere i cristiani seri dal loro dovere, anche se il diavolo ne ha fatto spesso uso. L'apostolo si rivolgeva ai cristiani e li avvertiva di stare attenti ai giudizi temporali con cui Dio castigava i suoi servi trasgressori. E nel mezzo del giudizio, Dio si ricorda della misericordia: molte volte punisce coloro che ama. È meglio sopportare i problemi in questo mondo, che essere infelici per sempre. L'apostolo sottolinea il dovere di coloro che vengono alla tavola del Signore. L'autoesame è necessario per partecipare correttamente a questa sacra ordinanza. Se volessimo esaminare a fondo noi stessi, per condannare e correggere ciò che troviamo di sbagliato, dovremmo fermarci ai giudizi divini. L'apostolo chiude il discorso con un ammonimento contro le irregolarità di cui i Corinzi si erano resi colpevoli alla tavola del Signore. Che tutti facciano attenzione a non riunirsi al culto di Dio in modo da provocarlo e far ricadere la vendetta su di sé.

Commentario del Nuovo Testamento:

1Corinzi 11

1 Siate miei imitatori, siccome ancor io lo sono di Cristo

1Corinzi 4:16. Non si tratta di copiarlo servilmente, stantechè la loro circostanze personali son diverse da quelle dell'Apostolo; ma si tratta d'imitare lo spirito d'abnegazione che anima Paolo e ch'è stato, in un senso più completo ancora, l'anima della vita terrestre di Cristo. Si è notato, con ragione, come ogni qualvolta Paolo cita l'esempio solo perfetto di Cristo, lo fa per additare la sua abnegazione infinita. Esemp. Romani 15:3,7; Filippesi 2; 2Corinzi 8:9, da cfr. con Ebrei 12:2-3; 1Pietro 2:21. La fisionomia del Cristo che sta impressa nella mente di Paolo, collima con quella che abbiamo riprodotta nei Vangeli.

Questo versetto 1Corinzi 11:1 è cospicuo esempio delle imperfezioni della divisione usuale dei capitoli. Non solo è chiara la sua connessione colla fine del cap.10; ma non ha relazione di sorta coll'argomento trattato al principio dell'11o.

AMMAESTRAMENTI

1. Se Paolo rifugge dall'adoperare l'arte non sincera dei rètori appare dal modo in cui tratta in 1Corinzi 8-10 la complessa quistione delle carni sacrificate com'egli sappia adoperare mirabilmente i mezzi atti a produrre nelle menti e nei cuori una illuminata persuasione. Lo si vede, infatti, unire al ragionamento, l'affettuosa esortazione, e questa rendere più calzante colla potenza degli esempi che sceglie ora nel campo delle usanze profane, ora in quello della storia d'Israele ed ora nella propria vita missionaria. Lo si vede fare appello talvolta al principii morali insiti nella coscienza naturale, tal'altra a quelli rivelati dalle S. Scritture o proclamati da Gesù, e tal'altra ancora a quelli che scaturiscono dal sentimento cristiano. Solo chi ha «la mente di Cristo» ed è guidato dal suo Spirito, può, nello spiegare le proprie energie al servizio dell'Evangelo, riunire tanta ricchezza in sì breve spazio.

2. La questione delle carni sacrificate non ha più carattere di attualità per noi. Ma quello che rimane di somma importanza, per tutte le età, sono i principii secondo i quali Paolo la risolve.

Come suprema norma di condotta, egli pone un principio di universale estensione, di grande profondità morale, d'inarrivabile elevatezza: «Fate tutto per la gloria di Dio». Le vie che conducono sicuramente al fine supremo di glorificare Iddio, sono anzitutto la fedeltà alla verità ch'è quanto dire la coerenza alla nostra professione cristiana, poi l'amore al prossimo la cui salvezza deve starci a cuore più dell'esercizio dei nostri diritti, ed infine, la vigilanza riguardo a noi medesimi.

Non mancano nella società moderna le questioni d'ordine morale che potranno trovare la loro soluzione nell'applicazione dei principii enunziati da Paolo. Quale effetto avrà la mia condotta su coloro che sono alieni dal Vangelo e su coloro che credono? quale effetto avrà sulla mia propria vita spirituale? È ella in armonia colla mia professione di fede cristiana? Ecco tre domande che possono giovare ad una retta decisione quando si tratti di partecipare a qualcuna delle tante manifestazioni della vita pubblica a cui vanno congiunte cerimonie religiose più o meno ripugnanti all'Evangelo; o quando si tratti di teatri, di balli, di divertimenti d'ogni genere, o dell'uso di cibi, di bevande e di vestiti, della legittimità o meno delle arti belle, di letture, di relazioni sociali, di partecipazione a società pubbliche o segrete, ecc., ecc. Guidato da quei principii, Paolo stesso si mostra, ora irremovibile come rupe ed ora arrendevole, senz'essere però mai mutabile come banderuola. Anzi, nel mutar continuo delle circostanze e delle persone, rimane fedele a dei principi immutabili, glorificando Iddio tanto colla sua fermezza, come colla sua carità condiscendente. «L'aver per movente supremo il desiderio di glorificare Dio, introduce ordine ed armonia in tutti i nostri atti... Il far della gloria di Dio il fine nostro garantisce anche gli altri fini d'ordine inferiore, col subordinarli al più alto... Questa è religione; mentre l'aver per fine quel che si chiama il bene dell'universo, è semplice moralità» (C. Hodge).

3. Paolo fa liberamente appello all'intelligenza ed al senso morale e religioso dei Corinzi per giudicare della verità e giustezza di quanto egli insegna. Egli vuole educarli alla riflessione. Una verità religiosa e morale, fìnchè non si raccomandi alla mente ed alla coscienza, fìnchè non sia assimilata dall'uomo interno, non è per lui una forza vitale; non può servir di leva per determinare la condotta. Perciò l'Apostolo mira sempre a persuadere più che a decretare autoritativamente.

Il discernimento morale cresce colla conoscenza e colla pratica della verità. La coscienza, a misura che si apre alla luce, viene emancipata dai pregiudizi, dagli scrupoli mal fondati e si fa in pari tempo più sensibile e più delicata. I cristiani maturi giungono ad avere i «sensi esercitati a discernere il bene dal male» Ebrei 5:14, l'errore dalla verità. Nessuna dottrina è più del cristianesimo atta a svolgere ed educare il senso morale e religioso. Lo prova l'influenza vivificatrice esercitata dalla Bibbia sui popoli, nonchè sugli individui. Chi, per esempio, ha mai avuto un'intuizione morale e religiosa più profonda di quella di Paolo del paganesimo antico, della natura diabolica di un sistema che avvilisce il concetto della divinità col politeismo e coll'idolatria più grossolana, che divinizza le più turpi passioni e converte in atti di culto le brutture umane? Eppure, egli può del pari discernere il sospiro che sale dal mondo pagano verso l'Iddio vero, ma sconosciuto, da cui procede tutta la grande famiglia umana Atti 17.

4. Senza fermarci qui sulla S. Cena, poichè l'Apostolo vi tornerà sopra al cap. XI notiamo solamente:

a) ch'essa è presentata come pratica regolare della chiesa primitiva sotto le specie del pane e del vino, conforme all'istituzione di Cristo;

b) ch'essa è posta in relazione coi conviti che seguivano i sacrificii giudaici e pagani. Non è quindi la ripetizione del sacrificio del Golgota, ma un convito spirituale ove l'anima credente si ciba dei frutti della morte di Cristo sola fonte di salvezza:

c) ch'essa è un atto sociale della raunanza cristiana in cui si affermano e consolidano i legami della fratellanza. I molti uniti a Cristo per fede, formano tra loro un sol corpo.

5. «Una comunione reale e vivente col Salvatore escluderà sempre dalla nostra vita tutto ciò che viene dallo spirito delle tenebre» (L. Bonnet). Qui sta la santa intransigenza del cristiano. Cristo e Satana, luce e tenebre, bene e male si escludono a vicenda. Non è possibile tenere il piede in due staffe. Come fìglio di luce il cristiano non può viver nelle tenebre. Ma il non transigere col male, non esclude per nulla i sentimenti di carità per chi rimane ancora estraneo alla vita nuova.

6. La reale e personale esistenza degli spiriti ribelli a Dio, il cui capo è Satana, è insegnata esplicitamente in 1Corinzi 10:20-21; come lo è del pari la funesta attività di questi «rettori delle tenebre di questo secolo», i quali presiedono e cooperano alla formazione, allo sviluppo ed alla difesa dei sistemi di menzogna, da cui è sedotta tanta parte dell'umanità. La storia dimostra che questi spiriti seduttori non hanno avuto mai associati e complici più utili dei cristiani infedeli al Vangelo, che voglion bere al calice di Cristo ed a quello dei demoni.

7. Il predicatore più efficace è colui che può additare il proprio esempio come illustrazione dell'insegnamento che inculca. E quanto è largo e pieno di simpatia per ogni uomo, credente o no, debole o forte in fede, il cuor di Paolo! Però Paolo non chiede che lo si segua ciecamente; il solo modello infallibile e perfetto per lui e per tutti è Cristo.

2 

PARTE TERZA

Le questioni attinenti al culto pubblico

1Corinzi 11-14

Con 1Corinzi 11:2, l'Apostolo entra in un ordine nuovo di argomenti che sono detti liturgici perchè si riferiscono alla celebrazione del culto nelle pubbliche assemblee. Anche qui, si tratta, o di correggere abusi introdottisi o di rettificare nozioni erronee, risalendo ai principii per dedurne delle sane regole pratiche.

Tre sono le questioni liturgiche trattate in 1Corinzi 11-14. La meno importante riguarda il contegno delle donne nelle assemblee di culto: 1Corinzi 11:2-16.

La seconda concerne il modo di celebrare degnamente la Cena del Signore: 1Corinzi 11:17-34.

La terza si riferisce all'uso migliore da farsi dei doni spirituali onde volgano all'edificazione della Chiesa. Paolo la tratta più a lungo in 1Corinzi 12-14.

§1 Il contegno delle donne nelle assemblee di culto 1Corinzi 11:2-16

L'Apostolo ha terminato il precedente col dire: «Siate miei imitatori...»; e prima di correggere altri abusi, egli sente di dover riconoscere lealmente quanto v'è di buono nella chiesa. Nella sua maggioranza, essa ricorda ed osserva le istruzioni impartite dall'Apostolo.

Ora, io vi lodo perchè vi ricordate di me in ogni cosa, e ritenete

con fermezza e costanza

le istruzioni trasmessevi, come io ve le trasmisi.

Il vocabolo παραδοσις (traditio) significa letteralmente l'atto del trasmettere, quindi la cosa trasmessa. Negli Evangeli, la «tradizione degli anziani» o «degli uomini» (Matteo 15:2-6; Marco 7:3-13; cfr. Galati 1:14; Colossesi 2:8) è il termine ufficiale per indicare le dottrine ed usanze che i rabbini dicevano venute dai padri per trasmissione orale. Quella tradizione senza fondamento storico certo, che annullava talvolta la S. Scrittura, Gesù la condanna esplicitamente. Quanto alla paradosis apostolica, essa comprende i fatti storici relativi alla vita ed agli insegnamenti di Gesù Luca 1:2; 1Corinzi 15:3-11;11:23, ed in genere la dottrina, la morale e le istituzioni del cristianesimo (Romani 6:17; 2Tessalonicesi 2:15; 3:6). Cfr. Ebrei 2:3; 1Timoteo 6:2-3; 2Timoteo 2:2; 1Timoteo 6:20; 2Timoteo 1:14). Essa è dunque identica, per la sua sostanza, coll'«Evangelo», colla «sana dottrina», colla «fede una volta trasmessa ai santi» Giuda 3, col «buon deposito». Quanto alla forma, essa è stata da principio orale, comunicata per via della predicazione, poi parte orale e parte scritta Luca 1:1-4; 2Tessalonicesi 2:15, ed infine redatta tutta per iscritto, in quanto ha di essenziale nei libri del Nuovo Testamento. È quindi facile vedere quanto sia diverso il concetto biblico della paradosis apostolica da quello cattolico-romano. Secondo quest'ultimo, la tradizione dovrebbe completare e interpretare la Scrittura; mentre la tradizione apostolica è nella sua sostanza e perfino nella sua forma, una stessa cosa colla Scrittura. Certo il N. Testamento non contiene tutto quel ch'è stato fatto o detto da Cristo e dagli Apostoli. Non contiene neppure tutto quanto è uscito da penna apostolica. Ma esso è sufficiente a farci conoscer con certezza Cristo e le sue inesauribili ricchezze Luca 1:4; Giovanni 20:30-31; 21:25. D'altronde, se si potesse provare che certe istruzioni non scritte provengono dagli Apostoli, la Chiesa le dovrebbe accettare. Ma dove sono le tradizioni suffragate da una tale prova?

Ad evitare ogni equivoco, abbiamo tradotto: le istruzioni trasmessevi; e si tratta qui, particolarmente, di quelle relative al culto. Paolo aveva ricevuti quegli insegnamenti dal Signore 1Corinzi 11:23 e li avea trasmessi alla chiesa.

3 Dopo lodata la generale fedeltà dei Corinzi alle sue istruzioni, Paolo stabilisce il principio su cui si fonda la correzione dell'abuso a cui mira in questo

Ma io voglio che sappiate che il capo di ogni uomo è Cristo, e il capo della donna è l'uomo, ed il capo di Cristo è Dio.

Sul contegno delle donne nelle adunanze, non pare che i Corinzi avessero ricevuto particolari direzioni; ond'è che, dall'uguaglianza dell'uomo e della donna di fronte alla salvezza, sembra che traessero la conclusione che ogni subordinazione sociale della donna fosse abolita dal Vangelo. Da questo alla soppressione di ogni segno esterno di subordinazione non c'era che un passo. Paolo insiste perciò sul fatto che il regno di Dio è un regno di ordine in tutte le sfere. La legge della subordinazione lo pervade dall'alto al basso. Essa esiste per l'uomo di fronte a Cristo, per la donna di fronte all'uomo e per Cristo stesso di fronte a Dio. «Ogni uomo» s'intende nel senso più ristretto degli uomini uniti per fede a Cristo, il quale in altro senso, è anche sovrano sopra ogni cosa Giovanni 17:2. La subordinazione della donna all'uomo si verifica principalmente nel matrimonio; ma è pur vero, in modo generico, che l'uomo è fatto per dirigere. L'uguaglianza spirituale Galati 3:28 non toglie che, nella vita sociale, vi debba essere subordinazione della moglie al marito, come ha da esservi pei figli di fronte ai genitori, pei servi di fronte ai padroni, pei sudditi di fronte a chi rappresenta l'autorità civile, senza che cessino, per questo, d'essere, se credenti, «uno nel Signore». Dio è il «capo di Cristo» in quanto Cristo è il Verbo umanato, il capo della Chiesa, il nuovo Adamo; ma quand'anche si volesse considerare il Cristo soltanto dal lato della sua natura divina, rimarrebbe pur sempre vero che secondo le Scritture il Figlio è uguale per natura al Padre, ma a lui subordinato. (Cfr. Giovanni 1:l; Colossesi 1:15; Ebrei 1:1,3; Apocalisse 1:l; Giovanni 5:26; 6:57; 20:17; 1Corinzi 15:28; 8:6, ecc.).

4 Posto il principio della subordinazione, le sue applicazioni hanno ad estendersi anche al contegno esterno dell'uomo e della donna. La foggia del vestire varia secondo i paesi ed i tempi: ma sempre e dovunque, oltre all'avere un'utilità igienica, serve a significare la nostra posizione sociale. Scrivendo a dei Greci, Paolo ragiona dal punto di vista dei costumi greci.

Ogni uomo che prega o profetizza col capo coperto

(è questa una mera supposizione)

fa onta al suo capo.

Il greco κεφαλη (kefalè) significa testa e capo nel senso di superiore; per cui si può intendere: fa vergogna alla propria testa, ovvero fa vergogna a Cristo ch'è il capo dell'uomo. Quest'ultimo senso è da preferirsi. L'uomo che vuol onorare il suo capo Cristo, deve nell'atto in cui si fa il portavoce della raunanza nella preghiera a Dio, o nell'atto in cui espone alla chiesa quel che Dio gli ha ispirato, stare a capo scoperto: essendo una tale attitudine meglio atta, almeno in Grecia, a significare che l'uomo non ha nell'ordine delle creature terrestri, altro capo al disopra di lui, e dipende direttamente da Cristo, l'uomo-Dio. Se non rispettasse la dignità regale ch'egli tiene da Dio, egli non darebbe a Cristo tutto l'onore che gli è dovuto.

5 Ma ogni donna che prega o che profetizza, senza il velo sul capo, fa onta al suo capo.

cioè all'uomo, e più propriamente al marito di lei, perchè mostra pubblicamente di volersi emancipare dalla dipendenza in cui l'ha collocata l'ordine da Dio stabilito,

poich'ella è una sola e stessa cosa colla [donna] rasa.

Col rigettare il peplum, simbolo convenzionale della «riservatezza, del pudore, della sottomissione della donna» (Bonnet), ella si mette nella società delle cortigiane sfacciate che vanno senza velo e delle donne adultere condannate a deporre li natural velo muliebre, a radere la lunga chioma, perchè hanno mancato al primo dovere di una moglie onesta. Se dunque la donna intende emanciparsi dall'ordine divino e ripudiare ogni segno della naturale subordinazione del suo sesso, sia logica fino all'ultimo, ripudi col velo, anche la chioma e si faccia tosare i capelli come gli uomini.

6 Se, infatti, la donna non si copre d'un velo, facciasi anche tosare; e s'egli è cosa vergognosa per la donna d'essere tosata o rasa, si copra d'un velo. Perciocchè, quant'è all'uomo, non deve coprirsi il capo, essendo egli l'immagine e la gloria di Dio: ma la donna è la gloria dell'uomo.

La legge di subordinazione, che ha da rimanere in vigore finchè dura lo stato terrestre del regno di Dio, si fonda sul proponimento divino manifestato nella creazione. Secondo la Rivelazione Genesi 1-2 che Paolo non ritiene un mito, Adamo fu creato il primo e poi Eva cfr. 1Timoteo 2:11-15. Ambedue sono stati fatti ad immagine di Dio, ma dall'ordine, come dal modo di creazione, risulta che l'uomo è, in un senso speciale, «l'immagine e la gloria di Dio», poichè in lui si riflette, più che nella donna, la maestà regale del sovrano della creazione terrestre Genesi 1:26-28; Salmi 8. E se l'uomo avesse conservata immacolata la sua corona. Qual gloria ne sarebbe ridondata al suo Creatore! In Cristo l'uomo è posto nuovamente in grado di raggiungere l'alto suo destino, e non deve perciò coprir d'un velo la dignità regale di cui Dio l'ha voluto coronare. La donna è la gloria dell'uomo perchè fu per esso grandissimo onore il ricever da Dio una compagna uguale a lui nell'ordine spirituale, e dotata di così alte e squisite doti. «Tutto quel che vi è di perfezione in lei è un omaggio reso all'uomo dal quale e per il quale ella è stata fatta, soprattutto quand'ella consacrasi liberamente a lui colla devozione dell'amore» (Godet).

8 Perciocchè, l'uomo non è dalla donna,

non è stato tratto dalla donna,

ma la donna è dall'uomo

come vien riferito in Genesi 2:18-24. E codesto modo significativo della creazione d'Eva ha la sua ragione nel fatto che la donna fu destinata da Dio a completare ed abbellire l'esistenza dell'uomo.

9 E infatti non fu creato l'uomo per

(lett. a motivo, a cagion di)

la donna, bensì la donna per l'uomo.

10 Perciò, deve la donna, a cagion degli angeli, avere in sul capo un [segno] dell'autorità

da cui dipende. Quel segno, secondo gli usi greci, era il velo muliebre. L'originale dice solamente: «avere in sul capo l'autorità», ma non è senza esempio la figura per cui viene nominata la cosa significata invece del simbolo che la rappresenta. Diodoro Siculo parla di una statua di regina egizia «avente tre regni sul capo, perchè figlia, consorte e madre di re» (Corinzi 12:23; Numeri 6:7. Gli angeli mentovati non possono essere i presidenti delle assemblee Apocalisse 2:1, nè gli speculatores pagani mandati ad osservare le raunanze cristiane, e neppure gli angeli caduti. Si tratta degli angeli di Dio i quali seguono con interesse le sorti della Chiesa sulla terra, ministrano a favor dei credenti e si rallegrano per la conversione d'un peccatore Luca 15; Efesini 3:10; 1Corinzi 4:9, Ebrei 1:14. Destinati a formar coi redenti una sola famiglia nel cielo essi assistono invisibili al culto dei figli di Dio sulla terra. E come la presenza di persone migliori di noi contribuisce a tenerci lontani dalle azioni sconvenienti, così la presenza di quei santi ospiti nelle assemblee deve servir di freno a chi fosse tentato di emanciparsi dall'ordine stabilito da Dio fra le sue creature. Vero è che di questa presenza degli angeli nelle adunanze non è fatta parola altrove: ma le visioni dell'Apocalisse ce li mostrano uniti ai redenti nell'adorazione Apocalisse 5:11.

11 Potendo il lato della verità ora esposto venir frainteso e fornir pretesto all'orgoglio per parte degli uomini. Paolo ha cura di prevenire un tale abuso.

Tuttavia, nè la donna è senza l'uomo,

(così il testo emend.).

nè l'uomo è senza la donna, nel Signore.

Secondo l'ordine di cose in cui si svolge la vita cristiana, l'uomo e la donna non vivono una vita indipendente l'uno dall'altra. Essi sono strumento di vita l'uno per l'altro: l'uomo lo è stato per la donna nell'atto della creazione, la donna lo è per l'uomo nella riproduzione della specie. Se, in certo senso, Adamo fu padre di Eva, essa è la madre di tutti i viventi.

12 Infatti, siccome la donna [viene] dall'uomo, così anche l'uomo [esiste] per mezzo della donna, ed ogni cosa [procede] da Dio

il quale trasse Eva da Adamo, e per la virtù del quale può la specie riprodursi per via di generazione. D'altronde quel che avviene nell'ordine di natura si ripete in altre guise nella sfera spirituale. Da una donna è nato il Salvator del mondo e per la propagazione e l'accrescimento della vita dello spirito, Dio adopera uomini e donne. Spesso la donna cristiana è madre in un duplice senso: fisico e spirituale.

13 Dopo aver addotte le ragioni tratte dall'ordine cristiano fondato sull'ordine di creazione, Paolo fa da ultimo, appello al senso innato delle convenienze.

Giudicatene voi, dentro di voi stessi,

nel vostro foro intimo.

È egli convenevole che la donna faccia orazione a Dio,

In adunanza pubblica,

senza esser coperta di velo?

14 La natura stessa, non v'insegna ella che mentre, per l'uomo, il portar una lunga chioma è un disonore, per la donna, invece, il portar una lunga chioma è un onore? Poichè la chioma le è stata data a guisa di velo.

Per natura s'intende la costituzione fisica dell'uomo e della donna. Vi sono infatti, nei caratteri fisici ed intellettuali della donna, nella sua maggior gracilità, nelle sue minori attitudini alla vita pubblica, ecc., degli indizi varii ch'ella è destinata dal Creatore ad occupare una posizione più modesta, nel santuario domestico. Perfino la sua lunga capigliatura ch'è come un gran velo capace di coprirle quasi tutto il corpo, è un indizio della parte più modesta e ritirata che le spetta. Su queste indicazioni naturali, si forma il senso innato delle convenienze; talchè l'uomo il quale porta lunga chioma è reputato un effeminato, un damerino; mentre il privar la donna della sua bella chioma è un marchio d'infamia che s'infligge solo alla moglie disonesta. «Col non dare all'uomo una lunga capigliatura come quella della donna, la natura stessa ha dato ad intendere che una testa libera, una fronte scoperta, si addicono alla sua dignità di re della creazione. La capigliatura dell'uomo è una corona, mentre quella della donna è un velo» (Godet). L'uso del velo convenzionale non fa dunque che secondare l'accenno della natura.

Se Paolo ha parlato in 1Corinzi 11:5;13 di donne che profetizzano e pregano nelle assemblee, senza fare su questo altra osservazione, è perchè egli si riserva di tornare sull'argomento in 1Corinzi 14:34-36, ove formulerà una regola generale al riguardo. Cfr. 1Timoteo 2:11-15: «Io non permetto alla donna d'insegnare, nè di assumere autorità sul marito, ordino, al contrario, ch'ella stia in silenzio...» La proibizione generale fatta alle donne di parlare nelle assemblee, non era destinata a soffocare intieramente una manifestazione straordinaria ed eccezionale dello Spirito di profezia o di preghiera, quando questo fosse concesso ad una donna. Nelle Scritture dell'Antico e del N. T. Il profetizzar delle donne non è del tutto escluso dai modi d'azione dello Spirito. Son mentovate come profetesse: Maria la sorella di Mosè, Debora, Hulda, Anna, le quattro figlie di Filippo, nonchè la «sedicente profetessa» Giesabele di Apocalisse 2:20. La madre di Gesù nel suo cantico parla sotto l'influsso dello Spirito profetico. Ma se non del tutto escluso, un tal ministero appare, nella storia biblica come in quella della Chiesa, cosa assolutamente eccezionale. E tale ha dovuto essere anche in Corinto.

15 Nel chiudere la sua trattazione, Paolo prevede il caso di persone che, trascinate dallo spirito di contestazione proprio dei Greci, non si arrenderanno alle ragioni esposte; ma per puntiglio, più che per amor di verità, andranno cercando dei cavilli avvocateschi per ripudiare le istruzioni apostoliche. Egli dichiara quindi chiaro e secco che, nè i ministri del Vangelo, nè le chiese di Dio, hanno l'abitudine di spender parole in vane dispute.

Che se alcuno crede di mostrarsi contenzioso, noi non abbiamo una tale abitudine, e le chiese di Dio neppure.

AMMAESTRAMENTI

1. È cosa lodevole per i cristiani il ritener con fermezza e fedeltà l'insegnamento storico dottrinale, morale ed ecclesiastico tramandato dagli Apostoli; e la Chiesa non può, in oggi, meritare una tal lode, se non coll'attenersi fedelmente alle Sacre Scritture del Nuovo Testamento, che sono l'unico documento autentico dell'insegnamento apostolico.

2. Paolo tratta con serietà e profondità una questione, in apparenza secondaria, come quella del velo muliebre, perchè essa implica un principio morale di alta importanza. Le cose che paion minime acquistano importanza quando sono l'indizio di una tendenza buona o cattiva. La foglia che galleggia sull'acqua può indicare la direzione della corrente profonda che la porta. Alle tendenze perniciose convien fare argine mentre è tempo.

3. Uguaglianza di natura e subordinazione non sono cose che si escludano. Se, per affermar l'uguaglianza degli uomini fra loro, si dovesse sopprimere ogni subordinazione sociale degli uni rispetto agli altri, sarebbe resa impossibile ogni società, dalla famiglia fino allo Stato.

4. La subordinazione sociale della donna, in ispecie nel matrimonio poggia sulla costituzione fisica ed intellettuale del suo sesso, sulla speciale destinazione a lei assegnata per creazione, come pure sulla legge dell'ordine che regge il regno di Dio. Non si tratta dunque di usi locali e passeggeri ma di fatti permanenti; talchè le ragioni messe innanzi dall'Apostolo hanno valore per tutti i tempi. Ogni riforma sociale che non s'informi a questi principii, invece di emancipar la donna, la degrada, strappandola alla missione cui la chiamano le attitudini conferitele da Dio e che Cristo vuol santificate.

5. Il Dio della grazia non è diverso dal Dio della natura. «Gli è nella sfera della salvazione che vengono portati a perfezione i pensieri divini abbozzati solamente nella natura» (Godet). La rivelazione che Dio ha dato di sè nella natura esterna e nell'uomo, non può essere in contraddizione con quella che ha dato per lo suo Spirito ad uomini speciali. Quest'ultima ci aiuta a legger la prima e la completa. (Cfr. Salmi 19). Nel fatto, la natura è stata scrutata principalmente dai popoli possessori della rivelazione scritta. Nessuna parola può significar meglio l'alto scopo dello studio della natura di quella di 1Corinzi 11:14: «La natura stessa non v'insegna ella...?» Se la storia è maestra, lo è del pari la natura.

6. L'appello fatto da Paolo alla natura suggerisce un altro ammaestramento così espresso da Fed. Robertson: «Niente fa meglio vedere la differenza tra fanatismo e cristianesimo, del modo in cui ciascuno tratta gl'istinti e le affezioni naturali. Il fanatismo sfida la natura. Il cristianesimo la rispetta, la perfeziona e la santifica... Lo Spirito di Cristo sviluppa ciascuna nazione, ciascun sesso, ciascun individuo secondo la lor propria natura, non secondo quella degli altri. Rende l'uomo più veramente uomo e la donna più veramente donna».

7. La questione del modo di vestire non si può risolvere con prescrizioni minute e immutabili. Deve bensì regolarsi in ogni luogo e tempo secondo certi principii che, di lor natura, non sono variabili. C'è da tener conto dell'uso generale del paese e del tempo in cui viviamo, poichè le cose convenzionali possono rispondere a bisogni legittimi ed esprimere principii eccellenti. L'uso e la moda vanno però ripudiati allorquando contraddicono alla natura o la storpiano. E se va rispettata la natura fisica, quanto più le regole morali della decenza, della modestia e della sobrietà? Cfr. 1Pietro 3:3-4; 1Timoteo 2:9-10.

17 §2 Il modo di celebrar degnamente la Cena del Signore 1Corinzi 11:17-34

Nel prescrivervi questo

circa il contegno delle donne nelle assemblee,

io non lodo il vostro adunarvi, non per il meglio, ma per il peggio.

Il senso costante di παραγγελλω è, non dichiarare, ma prescrivere, ordinare. Alcuni antichi Msc. leggono: «Or, questo io vi prescrivo, non lodando il vostro...», lezione che non muta il senso. Paolo ha potuto lodarli 1Corinzi 11:2 per la fedeltà con cui ritenevano le istruzioni lor date. E difatti, il culto e la S. Cena venivano da loro celebrati in modo esternamente conforme alla istituzione; ma le disposizioni ch'essi vi recavano non erano commendevoli, talchè le loro adunanze comuni, invece di giovare alla loro edificazione, le erano nocive.

18 Sento infatti dire, anzitutto, che quando voi vi adunate in assemblea, vi sono fra voi delle divisioni, e lo credo in parte.

Col dire: anzitutto (o primieramente) Paolo lascia intendere ch'egli ha da rilevare più d'un difetto nelle loro adunanze. Il primo consiste nella profanazione della S. Cena, il secondo sarebbe l'uso che fanno dei doni spirituali. Ma quando ne parlerà 1Corinzi 12:1, egli tralascerà d'introdurlo con un: Secondariamente. Il testo emendato legge: in assemblea ( εν εκκλησια); cosicchè non è possibile l'intender la parola ecclesia del locale delle raunanze 1Corinzi 14:23. Nel N. T. non s'incontra ancora quel senso posteriore del vocabolo. L'unico passo dubbio è Atti 11:26. Parlando delle divisioni o scissure, che si verificavano nelle adunanze, Paolo allude al frazionarsi della assemblea in gruppi diversi a seconda del partito ecclesiastico o della condizione sociale a cui appartenevano 1Corinzi 11:21,33. Questo scindersi in gruppi della raunanza, l'Apostolo, pur facendo la tara ai rapporti pervenutigli, non può non ritenerlo per cosa vera. Anzi, la sua esperienza missionaria riguardo alla necessaria epurazione delle chiese, l'induce ad aspettar il peggio.

19 Poichè bisogna che vi siano fra voi anche delle sette, affinchè coloro che sono approvati sieno manifestati fra voi.

C'è nella chiesa di Corinto del male latente che ha da venir fuori; poichè dovunque lo Spirito di Dio è all'opera in una chiesa, non può mancare la crisi in cui il male si produrrà apertamente, mentre d'altra parte quel ch'è sano sarà fatto palese. In conseguenza di questa necessità morale, Paolo aspetta che si producano in Corinto non solo delle scissure derivanti da preferenze personali, non solo dei partiti ecclesiastici, ma delle sette vere e proprie che romperanno l'unità della chiesa con dottrine sovvertitrici del Vangelo. Il greco αιρεσις (airesis opinione) serve nel N. T. ad indicare dei partiti costituiti su di una base dottrinale, quindi delle sette. Cfr. Atti 5:17; 15:5; 24:5; Galati 5:20; 2Pietro 2:1. La formazione di tali sette sarà, per la chiesa, un tempo di prova da cui i cristiani di buona lega, genuini, usciranno più saldi, più sperimentati, mentre quelli che non sono sinceri appariranno quali sono in realtà Atti 20:30-32; 1Giovanni 2:19-22. Nelle tendenze del partito detto di Cristo, nella negazione della risurrezione per parte di alcuni, Paolo scorgeva i prodromi delle sette di cui parla. Nella 2a Epistola denunzierà più apertamente i falsi apostoli.

20 Quando adunque voi vi adunate insieme

(lett. voi convenite nello stesso luogo)

ciò che fate non è mangiar la cena del Signore.

Essi vengono bensì allo scopo di celebrare il sacramento istituito dal Signor Gesù durante l'ultima cena che fece coi suoi, ma, in realtà, quel che fanno non risponde alla solennità ed allo spirito con cui avrebbe a compiersi un tale atto. Si dice comunemente che una cosa non è fatta, quando non è fatta a dovere. E così non è osservata una istituzione, quando la si pratica solo nella sua forma esterna, e non secondo lo spirito ed il fine spirituale di essa. L'espressione «Cena del Signore» ( κυριακον δ.) divenuta tecnica, non si incontra altrove nel N. T., ove si parla però del «calice del Signore», della «tavola del Signore» 1Corinzi 11:10,21, ed anche del «giorno del Signore», diventato in latino il dominica dies Apocalisse 1:10. Discorrendo dell'Eucaristia, Tertulliano la chiama «convivium dominicum». Essa fu istituita dal Signore e tutto, in essa, parla del Signore.

21 All'intento di imitare da vicino quanto avea fatto Gesù, si deve l'abitudine di celebrar l'eucaristia di sera, e probabilmente anche l'altra delle agapi o pasti di carità, che precedevano, nel secolo apostolico, la celebrazione della Cena. Esse rispondevano alla esuberanza dell'amor fraterno, e cristianizzavano l'usanza giudaica e pagana dei conviti sacri. Alle agapi si allude in Atti 2:46; 20:7,11; Giuda 1:12, e nel nostro passo. Ne parlano i più antichi scrittori e non sparirono del tutto che nel quarto secolo. A questi fraterni convegni, ognuno portava quel che poteva, ed il tutto, messo in comune, veniva mangiato dalla famiglia cristiana riunita che preludeva, per tal modo, al banchetto spirituale che seguiva. Purtroppo, una tale usanza non durò a lungo senza degenerare; ed in Corinto, già non rispondeva più al suo scopo caritatevole e fraterno poichè i ricchi tenevano per sè le lor provviste e non si curavano d'aspettar che l'assemblea fosse riunita, ma le consumavano a parte, quando loro talentava, talchè, mentre da una parte vi era eccesso e boria, dalla parte dei poverelli vi era penuria ed insieme umiliazione. Invece di preparare alla fraterna celebrazione della S. Cena, cotali agapi preludevano alla sua profanazione.

Infatti, nel mangiare

che fate quando avete codeste vostre agapi

ciascuno prende prima la sua propria cena

particolare

e mentre l'uno

(il povero)

ha fame, l'altro è ebbro.

Invece d'un pasto comune di carità, si aveva una esposizione d'ingordo egoismo. La fame e l'ubriachezza sono citate come casi estremi per meglio rilevare lo sconveniente contrasto a cui dava luogo un tal modo di procedere. Se essi - parla degli agiati - d'altro non si preoccupavano che del mangiare e del bere, non c'era bisogno di scegliere, per questo, nè l'ora nè il locale della raunanza cristiana.

22 Non avete voi forse delle case per mangiare e per bere?

E se essi intendevano compiere nell'agape un atto religioso, avrebbero pur dovuto sentire che, col loro modo d'agire, essi trattavano la chiesa od assemblea di Dio con disprezzo. E ciò, tanto col non osservar ritegno nel mangiare e nel bere, come col non aspettar gli altri, e col non dividere le provviste coi lor fratelli poveri:

ovvero sprezzate voi la chiesa di Dio e fate voi vergogna a quelli che non hanno?

Mentre essi fanno pompa della loro abbondanza, i poveri sono dalla circostanza, costretti d'esporre quasi pubblicamente la loro povertà, mettendo sulla tavola, in disparte, la loro scarsa cena, e rimangono svergognati dal contrasto. Una tal condotta, Paolo non la può lodare. Il testo è così punteggiato da molti:

Che dirovvi? Vi loderò io? in questo io non vi lodo.

Delicato modo di biasimarli.

23 Allo scopo di persuaderli che il loro modo profano di celebrar la S. Cena è biasimevole, l'Apostolo ripone dinanzi agli occhi loro, nella sua semplicità e solennità, la originale istituzione e l'alto significato spirituale del Sacramento.

Perciocchè io ho ricevuto dal Signore

Gesù, per via di rivelazione, come altrove dice dell'Evangelo che predica Galati 1:11-12,

quello che ancora ho trasmesso

a voi, nel mio insegnamento,

cioè, che il Signor Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane...

L'imperfetto «era tradito» del testo emendato, indica ch'era in corso di esecuzione il tradimento che dovea far capo alla morte. Cristo scelse quella notte solenne fra tutte, per istituire il rito in cui si commemora il suo sacrificio. Qual contrasto fra i sacri ricordi di quella notte e la profana allegria di taluni gruppi dell'agape Corinzia. Il pane preso da Gesù era pane azzimo, ed egli lo distribuì durante la cena pasquale da lui anticipata il giovedì sera Matteo 26:26; ma queste circostanze erano accessorie. La Cena infatti dovea sostituire la Pasqua presso i cristiani, ed in Atti 2:20 ov'è questione della Santa Cena, si parla di pane ordinario.

24 E dopo aver rese grazie

(donde il nome d'Eucaristia che s'incontra di già, verso il 100, nella Didachè degli Apostoli),

lo ruppe e disse: questo è il mio corpo ch'è per voi.

Le parole «prendete, mangiate» sono tolte da Matteo 26:26, ma riconosciute inautentiche in questo luogo. Parimente, la parola «rotto» manca in tutti i più antichi codici. Uno legge: «stritolato»; due antiche versioni leggono, come in Luca 22:19, «dato» per voi. Tutti questi participi sono, secondo ogni probabilità, delle aggiunte destinate a chiarire il senso dell'espressione concisa: «che (è) per voi». L'ho assunto per voi, pare dica Gesù, e lo abbandono ai martorii ed alla morte della croce, per voi. (Cfr. Ebrei 10:5-10.) Il pane è il corpo di Cristo, non per via di transustanziazione o di consustanziazione, ma semplicemente in senso simbolico. Quando Gesù distribuiva il pane, il suo corpo era lì presente e vivente, ed il sangue gli scorreva ancora nelle vene. Quando Gesù dice che il calice è il nuovo Patto, egli parla manifestamente un linguaggio figurato. Il pane che si rompe ed il vino che si versa restano pane e vino secondo la Scrittura, come secondo le più ordinarie regole dell'evidenza. (Cfr. 1Corinzi 10:16-17; Atti 2:42; Matteo 26:29). Volendo significare che una cosa ne rappresenta simbolicamente un'altra, si usa dire che è la tale cosa. Una statua, un ritratto, è il tal dei tali. Sara ed Agar «sono due patti» Galati 4:24; le sette vacche, le sette spighe del sogno di Faraone sono sette anni (Genesi 40:26; cfr. Daniele 2:38; Matteo 13:37).

Fate questo in memoria di me.

In queste parole abbiamo l'ordine positivo che stabilisce la S. Cena come istituzione permanente nella Chiesa. Fate questo comprende gli atti del prendere, del benedire, del rompere, del mangiare il pane. Inoltre, si esprime qui chiaramente lo Scopo della istituzione, che non è di ripetere il sacrificio di Cristo, ma di ricordarlo, di commemorarlo.

25 Parimenti, dopo aver cenato, [prese] ancora il calice dicendo: questo calice è il nuovo patto nel mio sangue. Fate questo, ogni volta che voi ne berrete, in memoria di me.

L'aver compiuta l'istituzione del sacramento dopo la cena pasquale, accenna all'intenzione di Cristo che il rito commemorativo del sacrificio del vero Agnello pasquale, prendesse d'ora innanzi il posto della pasqua giudaica. «La nuova Economia venne innestata sull'antica. Spirò il mosaismo nei dolori del parto del cristianesimo» (Edwards). Il calice contenente il vino simboleggia il nuovo patto, fondato sul sangue che Cristo ha versato per ottenerci la remissione dei peccati Matteo 26:28; Luca 22:20. Nell'antico patto concluso al Sinai, Dio prometteva la vita a chi osservasse la sua legge; ma chi poteva adempiere ad una tale condizione? Il nuovo patto promesso già nei profeti (Geremia 31; Ezechiele 36; cfr. Ebrei 8:7-13), è un patto di grazia in cui Dio offre il perdono ed il rinnovamento del cuore a chiunque crede nel Signor Gesù. Perciò è chiamato «il patto migliore, stabilito su migliori promesse», «il patto eterno» Ebrei 7:22; 8:6;13:20. Ma quello che rende possibile il perdono e la giustificazione del peccatore, è l'espiazione dei peccati compiuta dal sacrificio di Cristo Romani 3:24-26. Il sangue di Cristo è quindi «il sangue del patto» Ebrei 9:11-28; e Cristo parla del nuovo patto nel suo sangue, cioè stabilito, fondato sul suo sangue. L'ordine: «Fate questo, ogni volta che voi ne berrete, ecc.», ribadisce il carattere permanente e lo scopo commemorativo della istituzione, così nella sua seconda, come nella sua prima parte. Che dire dinanzi ad un comando divino così esplicito, della soppressione del calice? il Signore non prescrive nulla circa la maggiore o minor frequenza della celebrazione della Cena, lasciando questo alla libertà della Chiesa.

Come l'ha notato Olshausen, abbiamo in 1Corinzi 11:23-25 una esposizione autentica del suo sacramento, fatta da Cristo stesso, dopo la sua risurrezione; ed in ogni tempo, la Chiesa ha considerato questo passo come la spiegazione più importante della Santa Cena nel Nuovo T. La narrazione evangelica che più si accosta a questa è quella di Luca, compagno di Paolo. D'altronde, quanto a sostanza, la relazione di Paolo concorda anche con Matteo e Marco. Probabilmente, non abbiamo in tutte quante le relazioni, che un sunto delle parole pronunziate da Gesù, in quella occasione.

Dopo aver ricordato le circostanze e lo scopo della Cena. Paolo ne deduce alcune conseguenze circa il modo in cui va celebrata se non si vuole, profanandola, incorrere nei giudicii di Dio, come appunto avevano fatto i Corinzi.

26 Gesù ha detto: «Fate questo in memoria di me»:

Ogni volta, infatti soggiunge Paolo, che voi mangiate questo pane e bevete il calice (testo emend.) voi annunziate la morte del Signore, finchè egli venga.

La S. Cena è la commemorazione del sacrificio di Cristo, ed in quel muto linguaggio dei simboli, il comunicante proclama, non il nudo fatto soltanto della morte di Gesù, ma il valore espiatorio di quella morte ch'è fondamento del nuovo patto. E quest'annunzio solenne ha da durare fino alla seconda venuta di Cristo Matteo 26:29; Marco 14:25. «La Cena è come il legame tra le due venute: monumento della prima, arra della seconda» (Godet).

27 Talchè, chi avrà mangiato il pane o bevuto il calice del Signore indegnamente,

chi avrà celebrato (anche in una sola delle sue parti) questa ricordanza tanto solenne, in un modo e con delle disposizioni che non sono in armonia col significato e col fine di essa,

sarà colpevole del corpo e del sangue del Signore.

Essendo il pane distribuito durante l'agape ed il calice fatto circolare alla fine, potea succedere che uno avesse il dovuto raccoglimento per una parte del Sacramento e non l'avesse più per l'altra; mentre ambedue sono del pari sacre. Esser colpevole del corpo, ecc., significa esser colpevole verso il corpo, riguardo al corpo ed al sangue del Signore Giacomo 2:10. Chi, nella leggerezza di una profana allegria, prendeva i sacri simboli del corpo del Signore, senza rendersi conto di quello che faceva 1Corinzi 11:29, insultava alle agonie del Cristo morente in croce per i peccati del mondo. Invece di far una pia commemorazione della morte di Gesù, coll'uso irriverente dei simboli, egli commetteva una profanazione. L'affermazione ha, d'altronde, carattere generale e si applica a qualsiasi modo di celebrare il sacramento che non sia in armonia colla natura e col fine di esso.

28 Ad evitare un tale peccato, Paolo consiglia a ciascun cristiano di fare, prima di partecipare ai simboli della Santa Cena, un serio esame di se stesso.

Piuttosto, provi l'uomo se stesso,

scruti bene le proprie disposizioni per vedere se si addicono a chi si appresta a ricordare piamente la morte di Cristo, a nutrirsi spiritualmente dell'efficacia del suo sacrificio, a proclamar che la morte di Cristo è la sua vita e ch'egli considera come suoi fratelli coloro che credono in Gesù, e così, dopo un tale esame interno,

mangi del pane e beva del calice.

Chi infatti, prende con irriverente leggerezza i sacri simboli, come si rende colpevole di profanazione, così non isfugge al castigo di Dio.

29 Perciocchè chi mangia e beve,

s'intende: gli elementi eucaristici,

mangia e beve giudicio a sè stesso qualora non discerna il corpo

del Signore, sotto al velame dei simboli materiali. La traduzione che diamo rende il testo meglio accertato di 1Corinzi 11:29. Il non discernere il corpo è proprio di chi, per ignoranza o per empia leggerezza, non fa distinzione tra la Cena del Signore ed un pasto ordinario, o per lo meno, non sa «apprezzare il valore e la portata dei fatti di cui l'atto ch'egli compie deve ravvivar la ricordanza» (Reuss). Invece di ricevere dalla sua partecipazione al pane ed al vino, una benedizione spirituale, egli attira su di sè un giudicio; cioè, non la eterna condanna di cui a 1Corinzi 11:32, ma un giudicio disciplinare, un castigo divino destinato a correggerlo. Di tali castighi eranvi di già molti esempi fra i Corinzi.

30 Perciò, sonvi fra voi molti infermi e malati,

colpiti di varie infermità corporali,

e dormono parecchi,

cioè sono morti 1Corinzi 15; Atti 7:60; 1Tessalonicesi 4:13-15. Se l'Apostolo può precisar la vera cagione di quelle malattie e di quelle morti, ciò va attribuito ad una speciale rivelazione simile a quelle che venivano fatte, talvolta, ai profeti. Alcuni interpreti preferiscono però considerare le malattie ed il sonno di cui sono afflitti i Corinzi, come castighi di natura spirituale.

31 Se invece, ci esaminassimo noi stessi,

come ha consigliato a 1Corinzi 11:28,

non saremmo giudicati,

colpiti da questi giudicii di Dio;

32 ma, essendo giudicati, siamo dal Signore corretti,

in via di paterna disciplina 1Timoteo 1:20; Ebrei 12,

affinchè non siamo condannati

di eterna condanna,

col mondo

nemico di Dio. Dio castiga i figli suoi nel mondo di qua, onde evitar loro di cadere nell'eterna miseria.

33 A guisa di conclusione, l'Apostolo soggiunge due raccomandazioni pratiche atte a togliere di mezzo gli abusi accennati.

Pertanto, fratelli miei, quando vi adunate per mangiare

l'agape e la S. Cena che l'accompagna,

aspettatevi gli uni gli altri

facendo, così, di codesto vostro convegno, un vero mezzo di fraterna comunione 1Corinzi 10:17.

34 Se alcuno ha fame, mangi in casa [sua], acciocchè non vi aduniate per [trarvi addosso] un giudicio

come quelli mentovati più sopra. Ad evitare un tale pericolo, convien che l'agape in cui si celebra la S. Cena non sia come un pasto ordinario destinato a saziar l'appetito; ma conservi il suo carattere religioso e sobrio. Chi ha fame smorzi in casa il suo appetito.

Alle altre cose

di minore importanza su cui forse Paolo era stato interrogato,

darò ordine, quando sarò venuto

da voi, come ne ho l'intenzione.

AMMAESTRAMENTI

1. Il fine generale delle adunanze di culto vien definito da Paolo 1Corinzi 11:17 colle parole «per il meglio». Esso consiste, infatti, nel miglioramento spirituale dei fedeli. «Se guardiamo a quanto si fa nelle raunanze, è chiaro che non una deve restare infruttuosa. Vi si sente la Parola di Dio, vi si prega, vi si celebrano i sacramenti; il frutto di questi santi esercizii dev'essere il crescere nella pietà e nell'amore. Oltre a ciò, il Signore opera efficacemente, per lo suo Spirito, perchè non vuol che le sue istituzioni rimangano vane. Se dunque non ci sono utili le sacre adunanze, la colpa è della nostra ingratitudine» (Calvino). È possibile, anzi, a dei cristiani il far sì che le comuni raunanze, ordinate da Dio qual mezzo di grazia, degenerino in un mezzo di ruina spirituale. È il caso anche qui, per ognuno, di esaminar sè stesso e di far quanto da lui dipende perchè le raunanze fraterne volgano all'edificazione propria ed altrui.

2. Da un disordine verificatosi nella chiesa di Corinto, il Signore ha preso occasione per dare alla Chiesa universale l'insegnamento più completo che ella possegga sulla S. Cena. Così ci ammaestra la storia come da ogni errore dottrinale, da ogni setta, il Signore abbia saputo trarre occasione per far fare alla Chiesa sua un passo di più nella conoscenza della verità. Ciò non toglie che le manifestazioni del male in seno alla Chiesa siano una seria prova per la fede di ogni suo membro. Gli alberi che non han salde radici vengono divelti da quel vento; mentre quelli che Dio ha piantati mettono radici vieppiù profonde.

3. Non v'è miglior metodo per correggere gli abusi che si sono introdotti in una chiesa, di quello adoprato da Paolo: risalire alle origini. Tale, di fronte alle corruttele del cattolicesimo, è stata la forza invincibile della Riforma. Tale sarà sempre la vera forza di qualsiasi protesta contro una qualsivoglia deviazione dalla verità.

4. La S. Cena è, dal punto di vista apologetico, una testimonianza esplicita della realtà storica della vita e della morte di Gesù. Il racconto fatto da Paolo in un'Epistola d'incontestata autenticità, scritta meno di trent'anni dopo gli eventi ricordati, contiene tali dati precisi di tempo, di persone, di fatti, e concorda così manifestamente colle narrazioni dei Vangeli attinte ad altre fonti, che riesce una prova luminosa del carattere non leggendario, ma strettamente storico, così della istituzione della Cena, come in genere, della vita di Gesù.

5. Dal lato dottrinale, la Cena del Signore attesta il carattere espiatorio della morte di Cristo. Sulla propiziazione per il suo sangue, fondasi il Nuovo Patto e la remissione dei peccati assicurata a chiunque crede.

6. Quanto al significato del Sacramento, se si tien conto di quanto ha detto l'Apostolo in 1Corinzi 10:16-17, lo si può riassumere nel capi seguenti:

a) La S. Cena è una commemorazione della morte di Cristo mediante il linguaggio espressivo dei simboli ordinati da Gesù: il pane rotto ed il vino versato.

b) Per il fatto stesso ch'ella ricorda vivamente il sacrificio di Cristo, la Cena è per l'anima cristiana, una «partecipazione» al corpo ed al sangue di Gesù, ossia una partecipazione al beneficio della morte di Cristo, un cibarsi spiritualmente di Lui ch'è il pan celeste, il pane della vita.

c) Essa è inoltre un atto di comunione fraterna tra coloro che sono membri dell'unico Corpo simboleggiato dall'unico pane cui tutti partecipano.

d) Davanti al mondo la Cena è un'aperta profession di fede nel Cristo; nella sua morte espiatoria; nella sua risurrezione, e nella sua seconda venuta in gloria.

7. La celebrazione della Cena del Signore ha da farsi, in conseguenza:

a) colla dovuta solennità e col dovuto raccoglimento;

b) con ragionevole frequenza, sebbene non esista, al riguardo, alcuna regola precisa,

c) colla dovuta preparazione consistente in un serio esame di noi stessi, allo scopo di assicurarci che le nostre disposizioni sono in armonia coll'atto che vogliamo compiere.

8. Nota Calvino: «Se, nel tempo di Paolo, una corruzione non grande della Cena, potè accender l'ira di Dio contro i Corinzi e portarlo a severi castighi, che si dovrà pensar dello stato nostro? Vediamo, in tutto il papato, non solo orribili profanazioni della Cena, ma eziandio una sacrilega abbominazione stabilita in sua vece.

1) Vien prostituita a scopo di guadagno e fatta una mercanzia.

2) Vien mutilata colla soppressione del calice.

3) Ne viene alterato il modo di celebrazione, poichè uno la prende da solo ed è abolita la comunione fraterna.

4) Non v'è alcuna spiegazione del mistero, ma un mormorio che si confà più alla magìa che non all'istituzione del Signore.

5) Vi sono infinite cerimonie piene d'inezie e di superstizioni.

6) Vi è la diabolica invenzione del sacrificio [rinnovato], che contiene un'empia bestemmia contro alla morte di Cristo.

7) Se ne fa un mezzo d'inebriar i miseri mortali d'una fiducia carnale, poichè essi la oppongono a Dio quasi fosse una espiazione, e con questo amuleto credono di allontanare quanto potrebbe lor nuocere, ancorché siano senza fede e senza pentimento.

8) Vi si adora un idolo invece di Cristo. Infine, è piena di ogni genere di abbominazioni».

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