Commentario abbreviato:

Ebrei 13

1 Capitolo 13

Esortazioni a svolgere diversi compiti e ad accontentarsi di ciò che la Provvidenza concede Ebr 13:1-6

Rispettare le istruzioni dei pastori fedeli, con l'avvertenza di non lasciarsi trascinare da strane dottrine Ebr 13:7-15

Ulteriori esortazioni ai doveri, che riguardano Dio, il prossimo e coloro che ci sovrintendono nel Signore Ebr 13:16-21

Un'epistola da prendere in seria considerazione Ebr 13:22-25

Versetti 1-6

Il disegno di Cristo, nel dare se stesso per noi, è quello di acquistare a sé un popolo particolare, zelante di opere buone; e la vera religione è il più forte legame di amicizia. Qui ci sono esortazioni accorate a diversi doveri cristiani, in particolare alla contentezza. Il peccato che si oppone a questa grazia e a questo dovere è la cupidigia, un desiderio eccessivo delle ricchezze di questo mondo, con l'invidia di chi ha più di noi. Avendo tesori in cielo, possiamo accontentarci di cose meschine qui. Coloro che non possono esserlo, non si accontenterebbero nemmeno se Dio elevasse la loro condizione. Adamo era in paradiso, eppure non era contento; alcuni angeli in cielo non erano contenti; ma l'apostolo Paolo, pur essendo abbattuto e vuoto, aveva imparato in ogni stato, in ogni condizione, ad essere contento. I cristiani hanno motivo di essere contenti della loro sorte attuale. Questa promessa contiene la somma e la sostanza di tutte le promesse: "Non ti lascerò mai, no, non ti abbandonerò mai". Nell'originale ci sono non meno di cinque negazioni messe insieme, a conferma della promessa: il vero credente avrà la presenza benevola di Dio con lui, in vita, alla morte e per sempre. Gli uomini non possono fare nulla contro Dio, e Dio può far sì che tutto ciò che gli uomini fanno contro il suo popolo si volga a suo favore.

7 Versetti 7-15

Le istruzioni e gli esempi dei ministri che hanno chiuso con onore e conforto la loro testimonianza dovrebbero essere particolarmente ricordati dai sopravvissuti. E sebbene i loro ministri fossero alcuni morti, altri morenti, tuttavia il grande Capo e Sommo Sacerdote della Chiesa, il Vescovo delle loro anime, vive sempre ed è sempre lo stesso. Cristo è lo stesso ai tempi dell'Antico Testamento come a quelli del Vangelo, e lo sarà per il suo popolo in eterno, ugualmente misericordioso, potente e onnipotente. Egli continua a saziare gli affamati, a incoraggiare i tremanti e ad accogliere i peccatori pentiti; continua a respingere gli orgogliosi e i moralisti, ad aborrire la mera professione e a insegnare a tutti coloro che salva ad amare la giustizia e a odiare l'iniquità. I credenti dovrebbero cercare di stabilire i loro cuori nella semplice dipendenza dalla grazia gratuita, per mezzo dello Spirito Santo, che conforterebbe i loro cuori e li renderebbe sicuri contro l'illusione. Cristo è il nostro altare e il nostro sacrificio; santifica il dono. La Cena del Signore è la festa della Pasqua del Vangelo. Dopo aver mostrato che l'osservanza della legge levitica, secondo le sue stesse regole, avrebbe tenuto gli uomini lontani dall'altare cristiano, l'apostolo aggiunge: "Andiamo dunque verso di lui fuori dall'accampamento; usciamo dalla legge cerimoniale, dal peccato, dal mondo e da noi stessi". Vivendo per fede in Cristo, consacrati a Dio attraverso il suo sangue, separiamoci volentieri da questo mondo malvagio. Il peccato, i peccatori e la morte non ci permetteranno di rimanere a lungo qui; perciò usciamo ora per fede e cerchiamo in Cristo il riposo e la pace che questo mondo non può offrirci. Portiamo i nostri sacrifici a questo altare, a questo nostro Sommo Sacerdote, e offriamoli da lui. Il sacrificio di lode a Dio dobbiamo offrirlo sempre. In questo ci sono l'adorazione e la preghiera, oltre al ringraziamento.

16 Versetti 16-21

Dobbiamo, secondo il nostro potere, dare alle necessità delle anime e dei corpi degli uomini: Dio accetterà con piacere queste offerte, accoglierà e benedirà gli offerenti per mezzo di Cristo. L'apostolo afferma poi qual è il loro dovere nei confronti dei ministri viventi: obbedire e sottomettersi a loro, per quanto è conforme alla mente e alla volontà di Dio, resa nota nella sua Parola. I cristiani non devono ritenersi troppo saggi, troppo buoni o troppo grandi per imparare. Il popolo deve cercare nelle Scritture e, se i ministri insegnano secondo questa regola, deve ricevere le loro istruzioni come parola di Dio, che opera in coloro che credono. È interesse degli uditori che il resoconto dei loro ministri sia di gioia e non di dolore. I ministri fedeli liberano le loro anime, ma la rovina di un popolo infruttuoso e infedele ricadrà sulle loro teste. Quanto più il popolo prega seriamente per i suoi ministri, tanto più beneficio può aspettarsi dal loro ministero. Una buona coscienza rispetta tutti i comandi di Dio e tutti i nostri doveri. Chi ha questa buona coscienza ha bisogno delle preghiere degli altri. Quando i ministri si rivolgono a un popolo che prega per loro, si sentono più soddisfatti e hanno più successo per il popolo. Dovremmo cercare tutte le nostre misericordie con la preghiera. Dio è il Dio della pace, pienamente riconciliato con i credenti; che ha creato una via di pace e di riconciliazione tra sé e i peccatori, e che ama la pace sulla terra, specialmente nelle sue chiese. Egli è l'Autore della pace spirituale nei cuori e nelle coscienze del suo popolo. Quanto è salda l'alleanza che ha il suo fondamento nel sangue del Figlio di Dio! Il perfezionamento dei santi in ogni opera buona è la grande cosa desiderata da loro e per loro, affinché siano finalmente pronti per l'impiego e la felicità del cielo. Non c'è cosa buona che si compia in noi, ma è opera di Dio. E nessuna cosa buona è operata in noi da Dio, se non attraverso Cristo, per amore suo e per mezzo del suo Spirito.

22 Versetti 22-25

Gli uomini, e persino i credenti, sono così cattivi a causa dei residui della loro corruzione, che quando la dottrina più importante e più confortevole viene loro presentata per il loro bene, e con le prove più convincenti, c'è bisogno di un'accorata supplica ed esortazione affinché la sopportino, e non la abbandonino, la trascurino o la rifiutino. È bene che la legge del santo amore e della gentilezza sia scritta nel cuore dei cristiani, gli uni verso gli altri. La religione insegna agli uomini la vera civiltà e la buona educazione. Non è malvagia o scortese. Che il favore di Dio sia verso di voi e che la sua grazia operi continuamente in voi e con voi, portando i frutti della santità, come primizie della gloria.

Commentario del Nuovo Testamento:

Ebrei 13

1 

§2. Raccomandazioni varie e chiusa della lettera. Ebrei 13.

Per quanto sieno varie le raccomandazioni contenute in quest'ultima pagina dell'Epistola, esse convengono tutte allo stato delle chiese cui è diretta la nostra Lettera-trattato. Ebrard, Westcott ed altri le raggruppano nel modo seguente:

A. Ebrei 13:1-6. Raccomandazioni relative alla vita morale.

B. Ebrei 13:7-17. Raccomandazioni relative alla dottrina ed alla professione della fede.

Alle raccomandazioni fa seguito:

C. Ebrei 13:18-25. La Chiusa della Lettera.

A. Ebrei 13:1-6. RACCOMANDAZIONI RELATIVI ALLA VITA MORALE

La prima di queste riguarda la relazione coi fratelli in fede; la seconda concerne la famiglia e propriamente il matrimonio che n'è la base: la terza si riferisce agli affari della vita. Nella cerchia della chiesa, l'amor fraterno; nella casa, la santità del matrimonio; negli affari della vita, la fiducia nella provvidenza di Dio, ecco tre virtù di somma importanza per l'influenza profonda che hanno sulla vita intera; ecco tre beni preziosissimi.

Ebrei 13:1-3. L'amor fraterno.

L'amor fraterno dimori [fra voi].

L'amore per i fratelli non nel senso carnale, e neppure nel senso meramente nazionale, ma nel senso religioso. Tutti i credenti in Cristo sono fratelli, hanno il medesimo Padre, la stessa fede, la stessa speranza; e la comunanza spirituale crea fra loro un legame più profondo e più duraturo di qualunque legame terreno, perchè unisce gli spiriti che sono l'elemento fondamentale della personalità umana (Giovanni 13:34; 1Pietro 1:22-23; 1Giovanni passim). Nella 2Pietro 1:7 l'amor fraterno è distinto dall'amore o carità come una parte dal tutto. I cristiani Ebrei avevano, in passato, dimostrato in modo cospicuo il loro amore reciproco di fratelli e tuttora lo dimostravano. (Cfr. Ebrei 6:10; 10:24,34). Perciò dice dimori cioè resti saldo, continui costante ed inalterato a regnare nei vostri cuori. Cf. 1Tessalonicesi 4:9-10.

2 Non dimenticate l'ospitalità; per essa infatti alcuni hanno, a loro insaputa, albergato degli angeli.

Il dovere dell'ospitalità verso i fratelli forestieri è raccomandato di frequente del N.T. e le circostanze dei tempi ne rendevano l'adempimento, più che opportuno, necessario 1Pietro 4:8; Tito 1:8; 1Timoteo 3:2; Romani 12:13. Dei fratelli, gli uni viaggiavano per evangelizzare 3Giovanni 5-10; altri per guadagnarsi il vitto, o per sfuggire alla persecuzione. Gli alberghi erano rari e per i giudeo-cristiani, in ispecie, si aggiungeva il fatto ch'essi non potevano più contare sull'ospitalità dei loro connazionali. La forma della raccomandazione: non dimenticate, mostra che il dovere si praticava, che si riconoscevano per validi i motivi su cui si fondava; ma che lo zelo di prima si affievoliva alquanto 1Pietro 4:9. All'esortazione affettuosa, l'autore aggiunge un incoraggiamento tratto da quanto capitò ad Abramo e a Lot Genesi 18:19 i quali nell'esercitare l'ospitalità verso i forestieri, albergarono, senza saperlo, degli angeli mandati da Dio. La pratica disinteressata di questo dovere trae seco delle benedizioni spesso grandi ed inaspettate. I figli di Dio sono agli occhi di lui qualcosa di più grande e di più importante di quanto paia agli occhi del mondo. Gesù stesso ha promesso che anche un bicchiere d'acqua dato nel suo nome non perderà la sua ricompensa. «Chi riceve voi riceve me». Quei che si fa a uno dei minimi fra i suoi, egli lo conta come fatto a sè stesso Matteo 25:40.

3 Un'altra manifestazione dell'amore per i fratelli dovrà consistere nella efficace simpatia per i prigioni e per i maltrattati.

Ricordatevi dei carcerati come essendo carcerati con loro; di quelli che sono maltrattati come essendo ancora voi nel corpo.

Dice lett. «Ricordatevi di quelli che son nei legami ( δεσμιων) come essendo legati con loro»; facendo forse allusione all'uso di legare insieme due carcerati, o a quello di legare il carcerato al soldato di guardia. I carcerati sono quelli che soffrono la prigione per cagion dell'Evangelo. La storia della chiesa primitiva parla spesso di cristiani nei legami Atti 9:2; 12:6-7; 16:24-26; 26:29 e le Epistole della cattività). Per quanto i prigioni siano tolti dalla società e rinchiusi, i fratelli in libertà devono tenerli presenti al loro cuore, ricordandosi di loro nelle preghiere e cercando di soccorrerli in ogni modo. Clemente romano, nella sua Epistola ai Corinti, insegna a pregare così: «Libera i nostri prigioni, guarisci gli ammalati, rinfranca i pusillanimi». Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme con esso. I maltrattati sono i fratelli che, senza esser posti in carcere, sono oggetto di mali trattamenti in altre guise per cagion della loro fede. Il motivo dato per eccitare la simpatia inverso loro è stato inteso da Calvino in senso spirituale: «come essendo ancora voi membri del corpo della Chiesa». Ma la locuzione esser nel corpo non può aver quel senso. Neppure può significare: «Come se voi foste nel corpo materiale di coloro che soffrono». Va intesa dell'essere ancor essi, finchè sono in questa vita terrena, corporale, esposti alle stesse sofferenze: alla fame, alla nudità, alle malattie, alle separazioni dolorose, alle ansietà ecc. Quel tanto di sofferenze, ch'essi hanno di già provato e quelle che ancora potranno provare li devono disporre a viva simpatia per quelli che ora subiscono mali trattamenti. L'esortazione relativa ai prigionie ai maltrattati rispondeva ad uno dei bisogni creati dalle circostanze in cui erano le chiese destinatarie della lettera.

4 Ebrei 13:4. La santità del matrimonio.

Sia il matrimonio tenuto in onore da tutti, e sia il letto coniugale incontaminato. Perocchè Dio giudicherà i fornicatori e gli adulteri.

La parola γαμος (matrimonio) di solito significa le nozze, ma per estensione il «matrimonio» di cui le nozze sono l'inaugurazione. L'agg. τιμιος (prezioso, onorato), vale talvolta «prezioso», es. «pietre preziose», «prezioso sangue»; tal'altra vale «degno di onore», «tenuto in onore», ch'è manifestamente il suo significato in questo luogo. La frase va intesa, non come affermazione: «il matrimonio è onorevole...»; ma come esortazione, al pari della seguente Ebrei 13:5 sottintendendo cioè un εστω (sia). L' εν πασιν (in tutti) potrebbe considerarsi come neutro: «in ogni cosa, per ogni verso»; ma s'intende meglio come mascolino: «in tutti», o meglio «fra tutti», ossia per parte di tutti. In due modi principalmente poteva il matrimonio essere tenuto a vile; per parte cioè di chi preferiva una vita dissoluta, libera da ogni vincolo matrimoniale (i fornicatori); o per parte di chi, entrato nei legami sacri del matrimonio, poi contaminava il letto coniugale coll'adulterio (gli adulteri). Non risulta che l'autore abbia di mira delle tendenze ascetiche come quelle accennate 1Timoteo 4:3: «vieteranno il maritarsi»; egli combatte piuttosto le relazioni colpevoli ch'erano una delle piaghe della società giudaica del tempo, così proclive ad adottare le teorie di rabbi Hillel circa la facilità dei divorzi. «L'autore, nota A. B. Davidson, desidera innalzare il matrimonio al suo vero posto e dare ai lettori un giusto concetto di esso facendolo considerare come base fondamentale della società e come istigazione divina». Già in Ebrei 12:16 ha detto: «che niuno sia fornicatore...» Anche nel secondo membro della frase va sottinteso un imperativo, «sia il letto...». Chi in un modo o nell'altro avvilisce o contamina la, istituzione divina, se anche sfugge a qualsiasi giudicio umano, incorre senza fallo nel giudicio di Dio 1Tessalonicesi 4:6. La lezione γαρ (perocchè) invece di δε (ma) è appoggiata dai più antichi ms. ed accettata dai critici.

5 Ebrei 13:5-6. Non avarizia, ma fiducia in Dio.

Siano senza avarizia i vostri cuori, essendo contenti di quel che avete al presente;

I costumi ( τροπος) sono la maniera di vita, il carattere e le abitudini che lo manifestano. L'avarizia è definita dal greco l'«amor del denaro» che si palesa tanto nella tenacità colla quale si conservano i beni materiali che già si hanno, quanto nell'ardore con cui si cerca di acquistarne degli altri. Cf. 1Timoteo 6:9-10. «Quelli che vogliono arricchire...» Poteva una tale tendenza riuscir fatale alla pietà sia coll'impedire il doveroso esercizio dell'amor fraterno, sia col tentare l'anima a sacrificare i beni spirituali per conservare i materiali minacciati dalle persecuzioni.

All'avarizia lo scrittore contrappone la disposizione cristiana a contentarsi di quel che uno ha presentemente 1Timoteo 6:6 senza preoccuparsi con soverchia ansietà del domani, e senza darsi con cupidigia irrequieta ad accumular ricchezze. Il motivo di tale serena contentezza del presente, sta nella promessa esplicita fatta da Dio ai suoi di non abbandonarli.

Egli stesso infatti ha detto: «Io non ti lascerò e non ti abbandonerò».

Tale promessa, sotto la forma in cui vien qui riprodotta, non si trova in alcun luogo della Scrittura. Le parole di Dio a Giosuè Giosuè 1:5 ne contengono una parte, ma la citazione pare derivata da Deuteronomio 31:6 o da 1Cronache 28:20. Nel primo passo (secondo il cod. A della LXX) Mosè dice a Giosuè: «[il Signore] non ti lascerà e non ti abbandonerà», cioè, non ritrarrà da te la mano che sostiene e guida chi è debole e non ti lascerà solo in mezzo alle difficoltà. La promessa è posta qui in bocca a Dio stesso e applicata a tutto il suo popolo, mentre nel Deuteronomio era rivolta al conduttore e al rappresentante d'Israele. La si ritrova di già in Filone alla persona. Fondato su quell'assicurazione del Dio fedele ed onnipotente, ogni membro del popolo di Dio può guardare senza timore all'avvenire ed ai pericoli che può nascondere.

6 Talchè possiamo dire con animo fiducioso: «Il Signore è il mio aiuto, io non temerò. Che cosa mi farebbe l'uomo?»

La citazione è tolta da Salmi 118:6 che spesso è ricordato nel N.T. perchè occupava una parte importante nella celebrazione delle feste giudaiche. Essa era particolarmente adatta alla situazione di cristiani perseguitati di cui alcuni avevano perduto di già, ed altri erano in pericolo di perdere, per la malvagità degli uomini, i loro beni materiali. Alle ansiose sollecitudini Gesù ha dato pure per rimedio la fiducia nella provvidenza di Dio il quale provvede il cibo perfino agli uccelletti della campagna Matteo 6:25-34.

Ammaestramenti

1. Si posson dir beate le chiese come quelle di Tessalonica cui Paolo non stima necessario scrivere circa l'amor fraterno; o quelle dei Giudeo-cristiani a cui è rivolta l'esortazione: «L'amor fraterno dimori» seguiti a regnare fra voi. Come non è in istato normale la famiglia i cui membri non nutrono affetto reciproco, così non lo è una chiesa particolare, nè la chiesa in genere qualora le divisioni, l'indifferenza, i giudici aspri ed ingiusti, i sospetti ed i rancori vengano a turbare la dolce e calda e benefica atmosfera della bontà, della mansuetudine, della longanimità, e ad affievolire o spegnere in essa l'amore fraterno. Gesù lo diede come il contrassegno dei suoi discepoli davanti al mondo; e S. Giovanni lo addita come prova necessaria della vita nuova, tanto che chi non lo possiede rimane nella morte e invano pretende di amare Iddio. «Chi ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Iddio, poichè Dio è amore». Il frutto dello Spirito è l'amore.

Le manifestazioni dell'amor fraterno variano a seconda delle circostanze morali e materiali in cui trovansi i fratelli. Se non sono oggidì così frequenti le occasioni in cui è necessaria l'ospitalità; se più raro è il caso di fratelli carcerati per la fede o maltrattati, non mancano nella fratellanza le necessità morali o materiali che mettono alla prova la carità fraterna. E si noti che è oggi assai più estesa la famiglia spirituale e la facilità delle comunicazioni ci mette a contatto con un maggior numero di fratelli. La regola dell'amare il prossimo come noi stessi, si ritrova in quelle due considerazioni colle quali lo scrittore eccita i lettori a simpatia, esortandoli a mettersi in ispirito nella condizione dei lor fratelli sofferenti.

2. Il matrimonio fu istituito da Dio prima del fallo; fu proclamato santo ed inviolabile nel VII comandamento del decalogo; fu onorato da Cristo colla sua presenza alle nozze di Cana e dagli Apostoli col precetto e coll'esempio. Esso è base della famiglia umana e dev'essere tenuto in alto onore dai cristiani. Lo avvilisce chi lo considera come un mero connubio carnale; chi insegna la superiore santità del celibato in sè; chi stabilisce come regola obbligatoria il celibato dei ministri della chiesa; chi fa voti di celibato perpetuo senza esser certo di aver il dono di continenza e senza esservi chiamato da circostanze speciali; chi rifugge dal matrimonio per viver vita disordinata od egoistica. Lo avvilisce chi viola il patto della sua gioventù e contamina il talamo nuziale. Lo onora, invece chiunque si applichi con costanza, con pazienza ed abnegazione ad adempiere tutti i doveri di quel santo stato quali sono tracciati dalla parola di Dio.

Tenere in onore il matrimonio è tanto più necessario, quando nella società in cui vivono i cristiani dominano al riguardo principii rilassati e abitudini immorali che traggono sugli individui, sulle famiglie e sulla società intera; sotto forme diverse, il giusto giudicio di Dio.

3. L'amor del denaro, che va di pari passo collo scontento ingrato di ciò che Dio ci ha dato, non va confuso coll'attività diligente che mette in esercizio le capacità del cristiano allo scopo di meglio servir Dio. Questo è dovere di tutti. Ma l'avidità che muove da invidia, da amor del mondo, da sfiducia in Dio, che di solito è poco scrupolosa nei mezzi adoprati, non si confà col carattere cristiano. Possiam cercare di migliorare la nostra condizione ed anche invocare per questo l'aiuto di Dio, ma senza essere scontenti ed ingrati per quel tanto che la provvidenza di Dio ci dà nel presente. La promessa dell'assistenza continua di Dio costituisce di per sè il più sicuro tesoro di un'anima pia. Ognuna delle parole. della promessa è preziosa: Io il Signore misericordioso, onnipotente, che governa tutte le cose, non abbandonerò alle tue proprie forze, al voler dei tuoi nemici in nessuna circostanza - te che ho riscattato, adottato per mio figlio e di cui conosco perfettamente la situazione ed i bisogni. La certezza d'aver l'Eterno per il nostro aiuto dà all'anima pace e sicurezza anche quando le circostanze sono più minacciose e par trionfante la, malvagità degli uomini.

7 B. Ebrei 13:7-17. RACCOMANDAZIONI RELATIVE ALLA VITA RELIGIOSA

Il coltivar l'amor fraterno, il tenere in onore la santa istituzione del matrimonio, il nutrire la fiducia in Dio, erano altrettanti antidoti pratici contro l'affievolirsi della fede, la quale non può mancare di intristire in un'atmosfera d'egoismo, d'impurità e di avarizia. Però, prima di congedarsi dai lettori, l'autore torna un'ultima vota ad esortarli a star saldi nella fede in Cristo insegnata loro dai loro primi conduttori, ora morti. Cristo non muta; la sua grazia è quella che può appagare i bisogni dell'anima; quindi non si lascino trascinar lungi da Cristo dal vento di dottrine che li ricondurrebbero sotto al regime delle vane ombre dell'antico Patto. Non si può tenere il piede in due staffe. Chi vuole attenersi per la salvezza agli oramai aboliti riti giudaici, rinunzia a Cristo. Per contro, chi vuol attenersi a Cristo convien che si decida ad uscire dal campo giudaico dividendo l'obbrobrio di cui fu coperto il Salvatore reietto dall'Israele incredulo. Tanto, non è la Gerusalemme terrestre la nostra città, bensì la celeste verso cui tendiamo. Tuttavia, rinunziando al giudaismo, non rinunziamo al culto in ispirito e verità. Avremo ancora i nostri sacrifici, ma saranno quelli della lode continua a Dio, per mezzo di Cristo, e della beneficenza inverso gli uomini. E siccome i conduttori attuali delle chiese sono uomini fedeli, che hanno cura del bene spirituale del gregge, i lettori devono ubbidire ad essi, che così facendo, procureranno allegrezza a chi li pasce e profitto a sè stessi.

Come si vede, le raccomandazioni di Ebrei 7:17 sono insieme collegate da un nesso che si potrebbe formulare in due sole parole: Attaccamento a Cristo.

Ricordatevi dei vostri conduttori, i quali vi hanno predicata la parola di Dio; e, considerando quali esito abbia avuto la loro condotta, imitate la loro fede.

La parola greca ἡγουμενοι (conduttori) adoperata altrove per indicare chi dirige Luca 22:26, chi occupa una posizione influente Atti 15:22, si trova solo in quest'epistola applicata ai conduttori delle chiese Ebrei 13:7,17,24. Paolo adopera ὁι προισταμενοι (coloro che son preposti) 1Tessalonicesi 5:12. Il tradurre, col Martini, prelati introduce una idea gerarchica estranea al testo ed ai tempi dell'autore. Il ricordare i loro primi conduttori rievocava i migliori tempi della loro vita religiosa, quando cioè erano stati evangelizzati da quei missionari che avevano udito il Signor Gesù Ebrei 2:3 e di lui rendevano testimonianza con potenza. Più d'una volta, l'autore ha ricordato i tempi del loro primo amore e zelo Ebrei 5:12; 6:10; 10:32-39. Quei missionari, dopo aver annunziata loro (lett. parlata) la parola di Dio, la rivelazione più completa e definitiva di Dio circa alla salvazione, erano divenuti conduttor delle chiese da loro fondate ed i lettori avevano potuto osservar da vicino la loro condotta, il loro tenor di vita ( αναστροφη), ed infine avevano potuto vedere l'uscita, l'esito ( εκβασις) ossia la fine d'una tale carriera. (Cfr. 1Corinzi 10:23; Luca 9:31; 2Pietro 1:15 ove abbiamo εξοδος uscita; Atti 20:29 ove troviamo il termine analogo αφιξις dipartenza). La lor morte era stata degna della loro vita. La fede che li aveva sostenuti in vita aveva reso serena e trionfante la loro dipartenza, tanto nel caso di quelli ch'erano morti di morte naturale, come nel caso di quelli che avevano suggellato la loro fede col martirio. Il fissare lo sguardo della mente sopra quei ricordi del passato, il riflettere su quelle vite, su quelle morti di conduttori, diletti, doveva spingere gli Ebrei ad imitare la fede sincera, franca, perseverante nel Signor Gesù, che aveva ispirato la lor vita santa e illuminata di celeste pace e speranza la loro morte.

8 Gesù Cristo [è] lo stesso ieri ed oggi ed in eterno.

Il pensiero dell'immutabilità di Cristo serve di nesso tra il v. 7 e l'8. Quel Gesù che fu creduto e predicato dai vostri conduttori, che fu da loro confessato per tutta la vita e li sostenne fino alla fine, è sempre lo stesso, non muta. «Ieri fu coi padri, oggi e con voi, ed egli stesso sarà anche coi posteri vostri in perpetuo» (Herveius). Egli è lo stesso come Rivelatore supremo di Dio; lo stesso come Sacerdote misericordioso ed eterno che, dopo aver offerto un unico e perfetto sacrificio, vive sempre per intercedere a favor del suo popolo; lo stesso come Re che veglia sui suoi sudditi e conduce al suo compimento il regno di Dio. Nell'ieri non è da vedere allusione alla preesistenza del Figlio prima dell'incarnazione, dottrina, che è d'altronde chiaramente insegnata in Ebrei 1 ed altrove. Gesù ch'è il Cristo è immutabile passano uomini e sistemi, egli resta lo stesso. Non c'è dunque che da star saldi in lui, roccia incrollabile, e non lasciarsi smuovere da alcun vento di contrarie dottrine.

9 Non vi lasciate portar via da dottrine svariate ed estranee; perocchè egli è bene che il cuore sia raffermato dalla grazia, non da cibi dai quali non ricevettero giovamento coloro che osservarono le pratiche ad essi relative.

La lezione del testo emendato ( παραφερεσθε) significa: Non vi lasciate portar via, lungi dal punto ove bisogna stare. (Cfr. per il verbo greco Giuda 12; Marco 14:36). La lor nave deve star saldamente ormeggiata alla roccia ch'è Cristo e non lasciarsi trascinar lungi dal Mediatore immutabile della salvazione, dal vento o dalla corrente di dottrine contrarie (Cf. Ebrei 2:1). Coteste dottrine sono dette svariate o variopinte per opposizione alla semplicità e unità della verità cristiana che ha per centro il Cristo immutabile. Sono chiamate anche ξεναι che potrebbe significare «di provenienza estera», «forestiere», ovvero «strane» come novità Atti 17:20; ma che va più probabilmente inteso nel senso di estranee. non aventi cioè attinenza col cristianesimo genuino, estranee alla salvazione per grazia, e per conseguenza alla fede professata finora dai lettori ed insegnata dai loro conduttori. A quali dottrine l'autore vuol egli alludere? Non abbiamo nel testo altra indicazione che quella fornita dalla parola cibi con cui è caratterizzata la tendenza di quelle dottrine per opposizione alla grazia che caratterizza la sostanza del Vangelo. Se si tien conto di quanto è detto in Ebrei 9:10 ove il sistema preparatorio dell'antico Patto è fatto consistere «in cibi e bevande e svariate abluzioni», ordinamenti carnali di cui dice qui che chi li praticò non ne ritrasse giovamento durevole; se si tien conto di quanto è detto, Romani 14:2-4,15-20, degli scrupoli dei giudeo-cristiani deboli in fede e degli sforzi dei giudaizzanti per inculcare la necessità dell'osservanza del rituale giudaico (cf. Ep. Galati); se si guarda al nesso tra questi versetti e quelli che seguono ove si tratta della incompatibilità tra il cristianesimo ed il giudaismo ribelle, si è condotti a vedere in queste «dottrine svariate, ed estranee» l'insegnamento dei giudaizzanti pseudo-cristiani, i quali presenta vano sotto falsa luce l'ufficio della legge mosaica 1Timoteo 1:3-9 e non sapevano riconoscere il carattere transitorio dell'economia levitica. Non si tratterebbe dunque di importazioni ascetiche di origine gnostica come quelle cui si allude in Colossesi 2:22; 1Timoteo 4:1; ma si tratterebbe, principalmente del sistema rituale mosaico-rabbinico presentato, se non come condizione assoluta di salvezza, almeno come pratica di alta utilità per l'anima. Di tutto questo sistema l'autore ha già dimostrata la inefficacia spirituale; ed alla esperienza fatta da Israele si appella qui per costatare - che, non con dei cibi vien rassicurato il cuore. Dice lett. «coloro che camminarono in essi (cibi)», cioè coloro che si applicarono alla pratica delle prescrizioni rituali, «non ne trassero giovamento» in quanto - che siffatte pratiche esterne non davano pace al cuore, nè avvicinavano a Dio 1Corinzi 8:8,13. Quel che può dare al cuore pace e sicurezza di perdono, quel che può render salda la fiducia nel compimento finale della salvezza, è la grazia di Dio in Cristo. Perciò è bene che il cuore sia raffermato dalla grazia e non vada cercando pace e sicurezza in osservanze rituali che lasciano il cuore insoddisfatto e dubbioso. Siamo qui di fronte a due tendenze che fanno capo a due opposti sistemi quello che cerca giustizia dalla esterna osservanza di precetti legali e quello che cerca salvezza nella grazia di Dio per fede in Cristo. Tra questi due sistemi vi è assoluta incompatibilità! L'attenersi all'uno implica di necessità il ripudiare l'altro. Questo dichiara Paolo, Galati 5:1-6 e questo in altra guisa, mette in luce lo scrittore nei versetti che seguono.

10 Noi abbiamo un altare dal quale non hanno facoltà di mangiare coloro che ministrano nel tabernacolo.

Il nesso di questo vers. con quel che precede è variamente stabilito dagli interpreti. Westcott, ponendo l'accento sull'abbiamo, vi trova il punto di connessione: «Non siamo in condizione inferiore ai Giudei, un altare l'abbiamo anche noi cristiani». B. Weiss vede nella menzione dei cibi il nesso; «Quanto a cibi, non n'è - più questione per noi cristiani, poichè l'unico sacrificio che abbiamo è di quelli che non servivano a conviti ma erano arsi fuor del campo». Ci pare più conforme al contesto la interpretazione seguente: Noi credenti in Cristo abbiamo un altare speciale, cioè la croce del Golgota, su cui è stata offerta la vittima espiatoria dal cui sangue siamo purificati; ma ai benefici di cotesto altare non possono aver parte i Giudei per i quali la croce di Cristo è uno scandalo e che restano attaccati agli antichi riti. Essi sono rappresentati da quei sacerdoti levitici che ministravano nel santuario e che avevano bensì facoltà di mangiare degli altri sacrifici offerti sull'altare di rame, ma non avevano facoltà di mangiare la carne delle vittime di cui il sangue era portato nel santissimo nel giorno delle Espiazioni. Quelle vittime dovevano esser arse fuor del campo. In adempimento di quella figura, Gesù, la vittima espiatoria del Nuovo Patto, ha sofferto, portando la maledizione di Dio sul peccato Galati 3:13, fuori della porta di Gerusalemme, reietto e condannato dai capi religiosi del popolo, coperto d'obbrobri dai Giudei e da loro dato in mano dei Romani per esser crocifisso. A noi che crediamo in lui ed a lui vogliamo restar uniti, altro non resta che seguirlo separandoci recisamente dal giudaismo incredulo e dalle sue pratiche antiquate e prendendo la nostra parte del vituperio al quale fu fatto segno il nostro Salvatore e Capo. Molti interpreti cattolici vedono nell'altare quello sul quale si offre il preteso sacrificio della messa ed anche alcuni protestanti credono che l'autore alluda alla Cena del Signore. Ma si confondono così il sacrificio espiatorio di Cristo di cui è questione nel contesto col rito commemorativo di esso. Tanto l'Eucaristia del N.T. come il rito delle Espiazioni nell'A.T. sono intesi a dirigere gli sguardi sul sacrificio del Golgota offerto una sola volta ed eternamente efficace. E che l'autore abbia dinanzi agli occhi della mente il sacrificio del Golgota lo dimostrano le allusioni storiche alla crocifissione ignominiosa di Gesù fuor della porta di Gerusalemme, come pure l'esortazione: «Usciamo adunque verso di lui fuor del campo» Ebrei 13:12-13. L'altare della chiesa dei redenti è la croce del di lei Redentore» (Dolitzsch); quel «legno» sul quale il Cristo stesso ha «portati i nostri peccati nel suo corpo» 1Pietro 2:24. «Questo, dice il decano Alford, è il nostro altare; non l'esaltiamo fino a paragonarlo alla vittima adorabile che su di esso fu offerta, ma pur la croce è il nostro altare, in cui ci gloriamo, per cui combattiamo come pro aris. Sulle nostre bandiere, sui nostri sacri pegni, sui nostri ornamenti, nelle nostre chiese, dovunque esso si trova. All'infuori della croce, noi non conosciamo Cristo. Offerto in croce. Egli è la potenza di Dio e la sapienza di Dio». Dicendo: «altare dal quale non hanno podestà di mangiare...» s'intende: abbiamo un altare ed un sacrificio simile a quello di cui era prescritto che anche i sacerdoti, nonchè gl'israeliti, non ne dovessero levar nulla per la loro mensa. Così del nostro altare non possono partecipare coloro che stanno attaccati ai riti levitici. Tra il fidare in Cristo crocifisso e risorto per la salvezza e il fare assegnamento su cibi e bevande e riti, c'è assoluta incompatibilità. «Voi che volete esser giustificati dalla legge, non avete più nulla che fare con Cristo, siete scaduti dalla grazia» Galati 5:4.

11 Infatti, i corpi degli animali il cui sangue è portato dal sommo Sacerdote, nel Santuario, per lo peccato, sono arsi fuori del campo.

Tale prescrizione legale trovasi nel Levitico 16:27-28 da confrontare con Levitico 4:11-12,20-21 ove trattasi del giovenco espiatorio offerto per peccati involontari di un individuo o della raunanza.

12 Perciò anche Gesù, affinchè santificasse il popolo per mezzo del suo proprio sangue, soffrì fuor della porta.

Cristo è l'antitipo dei sacrifici espiatori dell'antico Patto, la realtà delle ombre. Egli ha santificato il popolo col suo sacrificio, avendolo purificato mediante l'espiazione e posto così in condizione di potersi appressare a Dio. Ma è convenuto perciò ch'egli portasse la realtà della maledizione di Dio sul peccato, ch'egli fosse reietto dai suoi connazionali, e morisse di morte ignominiosa. La vittima figurativa era immolata nel campo e poscia portata fuori e arsa nel deserto; Gesù fu scomunicato, condannato a morte, dato in nano ai pagani dentro alle mura di Gerusalemme e condotto poi fuori delle mura, sul colle del Calvario, per soffrirvi l'estremo patimento, crocifisso in mezzo a due ladroni. L'ultimo atto del sacrificio si compie, nei due casi, fuori dell'abitato cf. Matteo 21:39.

13 Usciamo adunque verso di lui, fuori del campo, portando il suo vituperio.

Cristo patì per noi ed a lui vogliamo prima di tutto e sopra ogni cosa rimaner uniti. Egli fu reietto dai Giudei e patì fuor del campo giudaico. Per conseguenza dobbiamo ancora noi seguirlo, rompendo ogni solidarietà religiosa col popolo dei crocifissori del Redentore. Il seguir Cristo implica per noi una specie d'esilio dalla nostra nazione, implica l'esser vituperati come settari, come apostati che rinnegano la legge dei padri ed i riti antichi. Ma è questo il vituperio di Cristo, l'obbrobrio di cui Cristo per il primo fu coperto e che dobbiam portare per cagion di lui, se vogliamo aver parte ai beni di cui egli è mediatore, ed entrare nella gloria di cui è coronato. Nei suoi primordi la chiesa cristiana non si separò nettamente dal tempio e dalla sinagoga; ma a misura che si fece più palese e più maligna l'avversione dei Giudei increduli al cristianesimo, il dovere per i cristiani, di rompere ogni solidarietà con essi, divenne manifesto.

14 Perocchè non abbiamo qui una città permanente, ma ricerchiamo la futura.

Il distacco dalla loro nazione, dal sistema religioso seguito nell'infanzia sarà doloroso, tanto più ch'è accompagnato da obbrobri; ma i cristiani Ebrei lo devono accettare con fede, ricordando che non hanno quaggiù città o patria stabile: che tutto quel ch'è terrestre e carnale è transitorio; che ad ogni modo la Gerusalemme terrestre, giudaica ed anticristiana, non è la città di Dio. La loro vera città è la futura, la Gerusalemme celeste verso cui volano i loro pensieri ed i loro desideri, il regno immutabile ove Cristo impera ed abita. Uniti all'Israele di Dio, all'Israele secondo lo spirito, non devono rimpiangere la loro separazione dall'Israele ribelle e carnale.

15 D'altronde, rinunziando ai riti giudaici, i lettori rinunziano solo a delle forme invecchiate, ma resta loro il modo di rendere a Dio un culto più reale, dei sacrifici accettevoli quali la lode riconoscente e la beneficenza verso gli uomini.

Per mezzo di lui, adunque, offriamo del continuo a Dio un sacrificio di lode, cioè il frutto delle labbra celebranti il suo nome.

La Sinagoga ripeteva che cesserebbero tutti i sacrifici, ma il sacrificio di lode non cesserebbe mai. Sotto quest'immagine, è spesso nei Salmi, raffigurata la riconoscenza per un qualche segnalato beneficio. Ora, il beneficio che suscita la perenne gratitudine dei cristiani tutti, quali che siano d'altronde i dolori cui vanno incontro accettandolo, è la salvazione di Dio; perciò il sacrificio di lode non è limitato a certe forme, a certe circostanze ed epoche e luoghi fissi, ma è da loro offerto del continuo a Dio. Ed e offerto per mezzo di Cristo, cioè per la mediazione dell'unico ed eterno Sommo Sacerdote del popolo di Dio (cfr. Ebrei 7:25). Gesù stesso ha insegnato ai suoi a presentar le loro preghiere al Padre «nel nome» suo, fondandosi sul sacrificio e sulla intercessione di Lui. Il sacrificio di lode è chiamato con altra immagine, tolta da Osea 14:3 il frutto delle labbra. In quel passo la LXX ha letto peri (frutto) invece di parim (tori) del testo massoretico. La vers. Segond unisce le due idee traducendo: «Nous t'offrirons, au lieu de taureaug, l'hommage de nos lèvres». Il cuore è l'albero; il frutto sono le parole di lode a Dio profferite dalle labbra. Tuttavia la lode non è il solo sacrificio accettevole a Dio. Mentre lodiamo lui colle labbra, non dobbiamo, dimenticare i nostri simili bisognosi che sono, sulla terra, i rappresentanti del Signore.

16 E non dimenticate la beneficenza e la comunicazione [dei beni]; poichè Dio si compiace di cotali sacrifici.

Il δε potrebbe tradursi ma. Non accontentatevi delle parole, ma aggiungete ad esse gli atti della beneficenza. Beneficenza ( ευποια: il far del bene) è parola più generica che include ogni sorta di atti di misericordia, di bontà, di simpatia; mentre la comunicazione ( κοινωνια Romani 15:26; 2Corinzi 9:13) accenna ad uno dei modi più usuali di beneficare, quello cioè di far parte dei nostri beni materiali ai bisognosi, principalmente ai fratelli in fede. Cfr. Ebrei 13:2-3.

17 Il v. 17 è, da alcuni espositori, connesso con le raccomandazioni che seguono, ma esso chiude bene il ciclo delle esortazioni religiose. L'autore ha ricordato in Ebrei 13:7 i conduttori passati, e poichè quelli attuali sono uomini che seguono fedelmente le tracce dei primi e si applicano a tener le chiese nella via della verità e della santità, egli esorta i fedeli a prestar loro la dovuta obbedienza.

Ubbidite ai vostri conduttori e siate loro sottomessi, perocchè essi vegliano sulle vostre anime come dovendo render conto; acciocchè facciano questo con allegrezza e non sospirando, poichè ciò non vi sarebbe d'alcuna utilità.

L'ubbidite ( πειθεσθε) indica più specialmente l'ubbidienza volontaria di chi ha fiducia in altri: il siate sottomessi ( ὑπεικειν, cedere, ottemperare) accenna all'ubbidienza prestata per dovere anche quando la cosa fosse a noi poco gradita. Taluni commentatori cattolici (es. Panek) si affrettano a dedurre da questa raccomandazione la conclusione che i conduttori «hanno podestà di dare precetti e di decretare leggi alle quali i lor sudditi sono tenuti di ubbidire». Ma, anzitutto, non potrebbe trattarsi mai di ubbidire leggi o precetti o definizioni dogmatiche che sovvertano l'Evangelo come fanno tanti decreti papali. «Se noi stessi, dice S. Paolo, ovvero un angelo sceso dal cielo vi annunziasse un evangelo diverso da quello che vi abbiamo annunziato, sia anatema» Galati 1:8. Poi non pare che si tratti affatto qui di leggi o precetti, ma piuttosto di quelle esortazioni evangeliche, di quei consigli, di quelle direzioni amorevoli date dai pastori nell'esercizio del loro ministerio presso i singoli membri della chiesa. E infatti prosegue col ricordare appunto le cure affettuose, coscienziose e costanti dei conduttori per il bene delle anime. Questa loro opera devota, più che il diritto o l'autorità, vien data come motivo dell'ubbidienza. Essi infatti non cercano il loro piacere, o la loro vanagloria od il loro interesse, ma fanno sul serio l'opera loro affidata: Vegliano per le vostre anime, ossia «a favore» ( ὑπερ), per il bene delle vostre anime. La loro costante preoccupazione e cura è il vostro bene spirituale ed eterno. E fanno questo colla serietà, colla diligenza scrupolosa di chi ha ricevuto un incarico da Dio e sa che deve un giorno rendere conto a Lui dell'opera propria 1Pietro 5:2-4. Indirettamente questa parola ricordava anche ai conduttori l'importanza, i doveri e la responsabilità del loro ufficio. «Il timor di codesta minaccia, dice Crisostomo, mi commuove angosciosamente l'anima». La ubbidienza dei fedeli ai loro conduttori, i loro progressi, rendono più facile a questi l'opera loro, poichè la possono fare con animo allegro, col sentimento che non lavorano invano, per un popolo ribelle e contraddicente. Il dar consigli o direzioni a chi non si cura di seguirli è opera ingrata che si fa sospirando, come sospira l'agricoltore che pota l'albero e non ne vede i frutti, che semina il campo e non vede crescere le messi. Questo render penoso e triste il ministerio dei loro conduttori, non può recare alcuna utilità alle chiese, nè per il presente nè per l'eternità.

Ammaestramenti

1. Quel che ci vien detto dei conduttori passati e presenti c'istruisce circa i doveri loro verso le chiese e delle chiese verso i conduttori. Nel titolo stesso che li caratterizza come guide dei fedeli è insinuato, come dice il Curci, «quel pensiero tutto cristiano che le autorità di qualsiasi genere, e sopratutto le sacre, sono preposte non per dominare, ma per condurre, guidare i minori al bene». E guidano quando sono esempio del gregge in parole ed in opere, in vita ed in morte. Sono uomini di fede sincera, illuminata e salda, capaci di confermare gli altri nella verità. Essi annunziano la Parola di Dio, non le loro elucubrazioni o le dottrine umane; e questa è la loro occupazione principale, poichè sono ministri della parola, che faticano in essa. Essi vegliano al bene spirituale dei fedeli come avendone ricevuto l'incarico da Dio al quale dovranno render conto.

Le chiese devono imitare la fede dei loro conduttori: ricordarsi piamente di quelli che già sono entrati nel riposo di Dio confermando colla loro morte la testimonianza della loro vita. Il ricordare per iscritto la vita e la morte dei servi di Dio cospicui per fede, è opera di sana edificazione - Devono poi i fedeli ubbidire ai conduttori in tutto quello ch'è conforme alla parola di Dio, non ciecamente poichè non sono infallibili ed abbiamo tutti il dovere di provare gli spiriti per accertarci che son da Dio. «Li conoscerete dai loro frutti» ha detto il Maestro. Il rispetto, la deferenza e l'affetto dei fedeli verso i loro conduttori, oltrechè alla consolazione di questi, ridonda in ultima analisi al maggior bene delle chiese.

2. In mezzo al perpetuo passare e mutar degli uomini e delle loro dottrine, Cristo resta immutabile. Sopra lui conviene adunque poggiare la nostra fede e le nostre speranze: sulla sua parola, sull'opera sua di sacerdote e vittima volontaria, sulla sua potenza che condurrà il regno di Dio alla sua gloriosa perfezione.

Il cuore che cerca pace e forza nella grazia di Cristo non sarà mai confuso; ma chi cerca la soddisfazione dei propri bisogni religiosi in osservanze e pratiche esterne e rituali, non ne ritrarrà maggior utile spirituale che non facessero gli Ebrei antichi dalle loro.

3. «il sangue di Cristo, come quello del sacrificio d'espiazione, è stato portato nel luogo santissimo. Esso ci assicura la possibilità di entrare e di dimorare ivi. È il segno che quello è il nostro posto. «Accostiamoci, entriamo». Il corpo di Cristo fu portato fuori del campo. Segno che quello è anche il nostro posto. Il cielo ha accolto il Cristo e noi con Lui. Il mondo l'ha respinto fuor del campo e noi con Lui. Nel cielo dividiamo il suo onore; sulla terra abbiamo parte al suo vituperio» (A. Murray).

L'aderire a Cristo con salda fede, implica l'abbandono di ogni altro mezzo di salvezza, la rottura di ogni solidarietà religiosa, con chiunque rinneghi il Cristo, e le verità essenziali circa la sua persona e l'opera sua redentrice. Tale rottura non dev'esser fatta che a ragion veduta e ben ponderata; tanto più ch'essa trae seco dolori e sacrifici; sono spezzati di frequente dolci legami di patria, di famiglia e di amicizia. Conviene rassegnarsi «ad esser reietti da tutti come spazzature, ritenuti indegni di viver nel mondo, indegni di morire d'una morte ordinaria». (Henry). Il balsamo a siffatti dolori, incontrati per fedeltà all'Evangelo, trovasi nella speranza cristiana della patria migliore, della città futura, che accoglierà per sempre tutti i membri della gran famiglia di Dio.

4. Anche il culto del nuovo Patto ha i suoi sacrifici. A chi sono essi offerti? La domanda, non avrebbe neanche a porsi fra cristiani che non devono adorare se non Dio solo. Da chi sono essi offerti? Da tutti i fedeli senza eccezione o distinzione di sorta tra ministri e laici. Tutti i credenti sono ugualmente sacerdoti a Dio: «Offriamo» dice l'Autore, voi ed io con tutti i fedeli. (Cfr. Romani 12:1; 1Pietro 2:5; Apocalisse 1:6). Tutti sono invitati ad appressarsi al trono di Dio per la via aperta dal Sommo Sacerdote perfetto - Per la mediazione di chi hanno ad esser presentati? «Per mezzo di lui», risponde Ebrei 13:15, cioè per l'unica mediazione di Cristo il Sommo Sacerdote sempre vivente che ha purificate le nostre persone ed i nostri sacrifici col suo sangue, per le mani del quale le nostre offerte sono gradite; nel nome del quale le nostre preghiere sono ascoltate. Di altri mediatori, la Parola di Dio non sa nulla. In che consistono i nostri sacrifici? Non in vittime espiatorie od in opere intese ad acquistare il perdono dei peccati, poichè Cristo coll'unico suo sacrificio ha compiuta l'espiazione dei peccati di tutto il suo popolo. Non in alcuna ripetizione del sacrificio del Golgota come si pretende di far nella messa, poichè il sacrificio di Cristo è stato offerto una volta per sempre; non in atti di devozione arbitrarti, perchè escogitati dagli uomini; ma consistono in lode a Dio per tutti i suoi benefici e sopra tutto per la grande salvazione procurataci in Cristo. Questa lode esce da cuori simili e riconoscenti e si esprime colle labbra che in mille modi colla parola, col canto, celebrano Dio e le sue perfezioni manifestate nelle sue opere. Consistono ancora i sacrifici in opere di carità e di beneficenza volte al bene spirituale, morale o materiale del prossimo, in ispecie dei fratelli. Beneficando le creature di Dio, particolarmente i suoi figli, imitiamo Dio nelle sue compassioni, e facciamo cosa a lui gradita. E quando hanno da offrirsi cotesti sacrifici? Non c'è qui, come nel culto levitico, prescrizione di giorni e di ore fisse. «Del continuo», senza limite di tempi e di luoghi e di circostanze. Ciò non esclude che per le comuni raunanze sia appartato il «giorno del Signore». «Del continuo» poichè non deve affievolirsi nè venir meno nel cuore cristiano la riconoscenza verso Dio e l'amore verso il prossimo. Ed anche nella eternità i redenti canteranno a Dio il cantico nuovo delle liberazioni.

18 C. Ebrei 13:18-25. LA CHIUSA DELLA LETTERA

La chiusa dello scritto è quella che ne rivela il carattere epistolare finora poco apparente. Qui intravediamo le relazioni affettuose che correvano tra l'autore ed i destinatarii della lettera; qui ritroviamo quei voti, quelle notizie personali, quei saluti, quella benedizione che sogliono riempire le ultime righe delle lettere apostoliche. Lo scrittore, forte della sua buona coscienza, domanda per sè le preghiere dei lettori affinchè possa più presto ritornare presso a loro Ebrei 13:18-19. Prega a sua volta Iddio di renderli per ogni verso compiuti Ebrei 13:20-21. Li esorta a fare buona accoglienza al suo scritto Ebrei 13:22. Partecipa loro la liberazione di Timoteo ed i suoi propri piani Ebrei 13:23. Manda saluti e termina colla benedizione Ebrei 13:24-25.

Pregate per noi. Perocchè noi siamo persuasi di avere buona coscienza, avendo volontà di condurci bene in ogni cosa.

Il trapasso dai conduttori delle chiese Ebrei 13:17 a chi, come lo scrittore della lettera, nutre del pari un vivo interesse per la loro prosperità, è facile. Egli è stato in passato, e resta anche ora, sebbene lontano, in connessione con loro. Anzi vede con gioia avvicinarsi il giorno in cui sarà loro restituito. Un tale linguaggio conviene perfettamente ad un evangelista itinerante qual'è stato Barnaba il compagno di Paolo. Il plurale per noi (lett. intorno a noi) è stato inteso, da alcuni, dell'autore e dei compagni di lavoro, presenti con lui. Ma, siccome torna immediatamente alla prima persona Ebrei 13:19. è più semplice intenderlo dell'autore soltanto che nell'epistola si serve or della prima plurale Ebrei 5:11; 6:9-11 ed or della prima singolare Ebrei 11:32; 13 fine. Il motivo speciale su cui fonda la domanda d'intercessione a suo favore è la persuasione in cui egli è di aver buona coscienza. Delitzsch nota che la buona coscienza è quella che attesta «l'armonia della nostra condotta morale colla legge di Dio scritta nei nostri cuori o colla sua volontà rivelata; quella che lungi dall'accusarci c'invita a prendere animo fondandoci, dinanzi a Dio, sulla sua misericordia e di fronte agli uomini sulla nostra condotta giusta 1Corinzi 4:3. Ma siccome l'idea di aver una buona coscienza potrebbe essere una illusione o una menzogna derivata dal nostro accecamento, l'autore dice siamo persuasi, perchè è questa la sua persuasione o convinzione ragionata, fondata sulla parola di Dio». Amplificando l'idea della buona coscienza aggiunge che in ogni cosa è sua volontà sincera di condursi secondo la regola suprema del bene. L'autore era egli oggetto di sospetti o di critiche per parte di alcuni fra i lettori, per il suo insegnamento o per la sua rottura aperta col giudaismo, o per altro motivo? Non lo possiamo sapere.

19 Vi esorto poi vie più a far questo, affinchè io vi sia più presto restituito.

Questo motivo speciale dato alle preghiere che raccomanda, suppone l'esistenza di una relazione personale anteriore coi lettori, di una lontananza presente, del mutuo desiderio di ritrovarsi quanto prima, e di un qualche impedimento che ritardava per ora l'effettuazione di questo desiderio. Quale fosse cotesto impedimento, non sappiamo. Se si trattasse di prigionia, sembra che vi avrebbe fatta più chiara allusione e che non avrebbe espressa l'intenzione di partire quanto prima. Ebrei 13:23.

20 Gli sia o no concesso di rivedere presto i suoi fratelli, l'autore riassume ciò ch'egli brama per i lettori in un voto, ch'è una preghiera a Dio il quale solo può fare per il loro bene ciò che nessun conduttore terreno è in grado di compiere.

Or l'Iddio della pace, il quale, in virtù del sangue del patto eterno, ha ricondotto d'infra i morti il gran pastore delle pecore, il nostro signor Gesù, vi renda compiuti in ogni bene per far la sua volontà. facendo in voi, per mezzo di Gesù Cristo, quel ch'è è gradito nel suo cospetto. A lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.

L'invocare Dio come l'Iddio della pace che ha risuscitato Gesù è manifestamente in relazione con quanto implora per gli Ebrei. L'Iddio della pace può significare l'Iddio che ama la pace, ovvero ch'è fonte della pace e della salvezza. (Cf. 1Tessalonicesi 5:23; 2Tessalonicesi 3:16; Filippesi 4:9). Quest'ultimo senso più comprensivo è da preferire. «Egli è per mezzo di Dio quale autore e dator di pace, che l'uomo può trovare l'armonia ch'egli cerca negli elementi in lotta della sua propria natura, nelle sue relazioni col mondo e nelle sue relazioni con Dio stesso» (Westc.). Nella frase: che ha ricondotto dai morti il gran pastore abbiamo la sola allusione esplicita dell'Epistola alla risurrezione di Cristo ed è fatta in modo da implicare anche l'innalzamento alla destra di Dio ( αναγαγων. L' ανα vale rursum e sursum: ricondotto in su). Gesù è chiamato il gran pastore delle pecore non solo perchè egli stesso si è designato come il «buon pastore» (Giovanni 10 e cf. 1Pietro 5:2-4) ma perchè egli è infinitamente superiore ai conduttori delle chiese ed a tutti quelli che nella Scrittura sono detti pastori del popolo di Dio: Mosè, i sacerdoti, i re, i profeti. L'inciso εν αιματι διαθηκς... (lett, nel sangue del patto eterno) si connette da alcuni colle parole: «gran pastore», ricavandone l'idea così espressa dal Reuss... Gesù divenuto il gran pastore delle sue pecore in virtù del sangue d'un patto eterno». Ma il «divenuto» è un'idea importata nel testo. Altri intende che Dio ha ricondotto dai morti il Cristo col sangue ecc. Ma sarebbe strano il presentar Cristo come risuscitante col suo sangue. Meglio attenersi al senso istrumentale della particella εν e renderla in virtù di..., o come il Revel «merce...». L'idea sarebbe che in virtù o a motivo del sangue versato da Gesù per suggellare il Patto nuovo e definitivo, Dio lo ha ricondotto dai morti e innalzato (cf. Ebrei 2:9-10; Filippesi 2:9). Il buon pastore che scese in terra a dar la propria vita per le sue pecore, Dio lo ha innalzato sul trono, affinchè le pasca e le conduca nel celeste ovile. Il nesso delle idee sarebbe il seguente: L'Iddio ch'è animato verso il suo popolo da sentimenti di pace, che procura la pace ossia il supremo bene di esso; Egli che ha rivelato di già il suo cuore in quanto ha fatto per il pastore del gregge traendolo dal sepolcro per coronarlo di gloria alla sua destra; Egli compia ora, per mezzo del gran Pastore, quanto resta da compiere in voi che siete le pecore da condurre al cielo.

21 Il verbo che traduciamo: vi renda compiuti (καταρτισαι ) contiene l'idea di un tutto armonicamente perfetto in tutte le sue parti, quindi esprime così il supplire a quel che manca, come l'emendare quel ch'è difettoso (cfr. Ebrei 11:3; Matteo 4:21; 1Tessalonicesi 3:10). Si tratta qui dell'esser resi compiuti moralmente in ogni bene. Così il testo più breve di alef D Vulg. accettato da Tischendorf, Westcott-Hort, Nestle. In C M si allunga in «ogni opera buona», ed in A in «ogni opera e parola buona». Per fare la sua volontà i.e. perchè, arriviate a compiere tutta la volontà di Dio ch'è la suprema norma del bene. Facendo in voi... Non sappiamo persuaderci che sia da preferire la lezione in noi (ἡμιν ) accettata dalle edizioni critiche sulla scorta dei Cod. alef A D Syr.; mentre l'in voi (ὑμιν ) si appoggia è vero al solo cod. C. all'It. e Vulg., ma ha per sè la rispondenza interna del periodo. «Dio vi renda compiuti per fare.., facendo lui in voi...». La variante noi ha potuto originare dall'uso frequente di cotesto voto per parte dei predicatori. E Dio che compie «così il volere come l'operare» nei redenti Filippesi 2:13, ma non senza di loro. Ed il suo beneplacito lo compie in loro per mezzo di Gesù Cristo. Egli è l'agente che, mediante il suo Spirito, abita nei cuori e li trasforma ad immagine di Dio. Coll'opera compiuta per noi mediante il suo sacrificio, Gesù ci affranca, dalla colpa; coll'opera compiuta in noi mediante il suo Spirito, egli ci affranca dall'impero del peccato. La dossologia: A lui la gloria (lett. al quale) si riferisce da taluni a Cristo, il che è grammaticalmente possibile. Ma siccome il soggetto di tutto il periodo è Dio che ha risuscitato Gesù, che rende compiuti i fedeli, che opera in loro, è preferibile riferirla a Dio, dal quale, per mezzo del quale ed in vista del quale sono tutte le cose Romani 11:36.

22 Ora, fratelli io vi esorto a prendere in buona parte la parola dell'esortazione; anche perchè vi ho scritto una breve lettera.

Lo scritto che sta per chiudersi è, nell'intenzione del suo autore, una lettera ( επεστειλα, donde epistola) da lui rivolta a determinati lettori e contenente una «parola d'esortazione». Ma, siccome contiene qua e là dei rimproveri severi e degli ammonimenti molto gravi, l'autore chiede ai lettori di «comportare», di prendere in buona parte l'esortazione loro rivolta. Ed alle ragioni di sostanza, di retta intenzione in chi scrive, ne aggiunge qui una di forma. Ha scritto brevemente quindi abbiano pazienza se non troveranno nella sua lettera tutti quegli svolgimenti che si sarebbero potuti aggiungere quando si fosse trattato il vasto argomento con tutta l'ampiezza che esso comportava.

23 Sappiate che è stato messo in libertà il nostro fratello Timoteo col quale, se viene fra breve, io vi vedrò.

Da questa breve comunicazione personale si rileva che Timoteo era noto ai lettori, ch'egli era stato imprigionato ed i lettori s'interessavano della sua sorte, che di recente era stato posto in libertà; e lo scrittore il quale trovavasi in località più vicina ai lettori, sperava di vederlo arrivar presto e di poter fare con lui una visita alle chiese cui è rivolta la lettera. Ora che Timoteo fosse noto alle chiese giudeo-cristiane di Palestina e di Siria risulta dal fatto ch'egli era stato compagno di Paolo nei suoi ultimi viaggi missionari (Es. Atti 20:4). Ma quando e dove e da chi fosse stato imprigionato e quindi liberato, non sappiamo.

24 Salutate tutti i vostri conduttori e tutti i santi

ch'è quanto dire tutti i membri delle chiese. Il saluto rivolto a «tutti i conduttori» rende probabilissima l'opinione secondo la quale la lettera non era destinata ad una chiesa sola, foss'anche quella di Gerusalemme, ma alle varie chiese di una regione. L'autore doveva essere uno di quegli uomini apostolici sul fare dei compagni di Paolo, i quali non limitavano l'opera loro a una sola chiesa, ma evangelizzavano intere regioni ed edificavano numerose chiese.

Vi salutano quei d'Italia.

Mancando altre indicazioni in contrario, l'espressione ὁι απο της Ιταλιας (quei d'Italia) va intesa nel suo senso usuale, cioè, quei che son nativi d'Italia, i cristiani Italiani (Cfr. Atti 10:23,38; 17:13; 21:27; Giovanni 11:1. Filone chiama i Romani ὁι απο Ρωμης, gli Alessandrini ὁι απο Αλεξ). Per sè stessa, la locuzione potrebbe significare: «quelli che son venuti d'Italia» ovvero essere adoperata da un autore scrivente fuori d'Italia per designare gl'Italiani residenti nella località. Alcuni critici moderni vi hanno veduto un saluto mandato da cristiani italiani fuori d'Italia ai loro compatrioti romani cui la lettera sarebbe, stata indirizzata. Ma stando alla tradizione che considera la lettera rivolta a delle chiese giudeo-cristiane d'Oriente, abbiamo qui, secondo il senso più semplice, il saluto fraterno dei cristiani d'Italia, visitati di recente dall'autore, ai loro fratelli d'Oriente. Anche quest'indizio unito all'altro della relazione personale con Timoteo, induce a cercar l'autore nella cerchia dei compagni di Paolo.

25 La benedizione finale è data nella forma paulinica abbreviata che troviamo anche alla fine dell'Apocalisse:

La grazia sia con tutti voi.

La grazia è la grande parola del Nuovo Patto, e ne riassume la sostanza: la grazia che perdona, che santifica, che fornisce ogni aiuto opportuno, che conduce alla finale ed eterna perfezione. L'amen e, con più ragione ancora, la poscritta che si legge nel testo ordinario, sono considerati dai critici come un'aggiunta di molto posteriore e, per conseguenza, inautentica.

Ammaestramenti

1. L'avere una buona coscienza, l'esser conscio dell'onesta intenzione e risoluzione di cercare e di fare in ogni cosa il bene, è in ogni uomo - e più nel cristiano che possiede la luce di Cristo - condizione di pace, di felicità nell'operare, di nobile indipendenza dai giudicii e pregiudizii altrui. Dà al ministro del Vangelo il coraggio di riprendere i fratelli e di esporre anche quei lati della verità che urtano vecchie abitudini, idee predilette succhiate col latte, tradizioni care; gli dà il diritto di domandare le preghiere dei fedeli di cui sente il bisogno; gli permette di attendere con fiducia la benedizione di Dio sul suo lavoro e di fare assegnamento sull'affetto di coloro a beneficio dei quali egli fatica. Se la sua coscienza lo condanna, come potrà avere franchezza dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini? - Dovere dei fedeli è di pregare per i loro conduttori, poichè «ministri coscienziosi sono una pubblica benedizione e meritano che si preghi per loro» (Chalmers). Devono apprezzare la presenza di ministri fedeli, quando Dio li manda fra, loro.

2. Alto è l'ideale di vita cristiana cui devono mirare conduttori e fedeli: «essere resi compiuti in ogni bene per far la volontà di Dio!» Gesù avea detto: Siate perfetti com'è perfetto il Padre vostro ch'è nei cieli. A raggiungere un tale ideale è necessario lo sforzo vigilante e costante di ciascun credente; è utile l'opera dei ministri fedeli; ma sopra ogni cosa, è indispensabile l'azione di Dio operante in noi, per mezzo del suo Spirito, «ciò ch'è gradito a lui» medesimo. E questo intervento del Dio di ogni grazia che già risuscitò e trasse in alto il nostro gran Pastore, va implorato assiduamente, come fa qui lo scrittore, colla preghiera. Dove ha condotto il Pastore supremo, condurrà per mezzo di lui anche le pecore. Non a noi, ma a Lui solo, appartiene la gloria della nostra salvazione in eterno.

3. Breve è l'Epistola per riguardo alla grandezza dell'argomento trattato; ma ispirata com'è dallo Spirito di verità, quanta luce ha sparso nelle menti circa la reciproca relazione tra l'economia antica preparatoria, e la nuova e definitiva di cui Cristo e ad un tempo il Profeta, il Sommo Sacerdote ed il Re! E quanto ha giovato, nel corso dei secoli, questa «parola d'esortazione» per confermare i vacillanti e ammonire i rilassati! Di tanto tesoro dobbiamo esser grati a Dio.

4. La fede nel comun Salvatore e Signore unisce in un comune legame di amore e di simpatia i credenti tutti di ogni nazione e di ogni età. I fedeli delle chiese d'Oriente s'interessano alla liberazione di Timoteo; i cristiani d'Italia mandano fraterni saluti ai giudeo-cristiani di Palestina e di Siria che non hanno mai veduti. Una medesima grazia divina è con tutti, e tutti unisce a Dio e gli uni cogli altri con un legame che la morte non distrugge.

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